#ValorePubblico

Medicina narrativa, co-produzione e leadership nei servizi pubblici

C’è una dottoressa internista americana, Rita Charon, che è anche una studiosa di letteratura, che all’incrocio delle due grandi passioni della sua vita ha fatto nascere una cosa nuova: la medicina narrativa.

 

Guardare ai pazienti non solo come alla somma dei valori delle loro analisi del sangue, radiografie e lista di sintomi, ma come a storie che devono essere raccolte con attenzione per comprendere meglio il contesto clinico; raccontare ai pazienti con parole comprensibili, senza che siano superficiali, ma nemmeno fredde, distanti, spaventose, la loro malattia e i trattamenti che stanno per ricevere per sostenere la loro esperienza di cura: questi sono alcuni dei principi che Rita Charon ha cominciato non solo ad esercitare nella sua attività, ma a trasformare in metodo di lavoro clinico. Oggi questa pratica è diffusa largamente negli Stati Uniti (soprattutto grazie al lavoro della stessa Charon alla Columbia University, che ha aperto un corso di studi sul tema) e in Europa.

 

Tra i benefici osservati della medicina narrativa ci sono il miglioramento della comunicazione medico-paziente, un maggiore coinvolgimento del paziente nelle decisioni sanitarie e una cura più centrata sulla persona, tutti aspetti che possono migliorare l’esperienza di cura del paziente e contribuire a migliori risultati di salute.

In più, alcuni studi hanno mostrato anche una riduzione del rischio burn-out del personale sanitario, perché consente un esercizio della professione in modo più consapevole di sé e degli elementi soggettivi in gioco. E, anche questo aspetto, è da considerarsi come un miglioramento del sistema di cura.

 

Il caso della medicina narrativa è un esempio eccellente di co-produzione e co-creazione di valore nei servizi pubblici: prendere atto della centralità del paziente e del suo ruolo attivo nel percorso di cura significa comprendere che i comportamenti del malato, dalla regolarità con cui si sottopone ad esami e trattamenti, fino alla disponibilità a cambiare alcune abitudini più rischiose sul piano della salute, non possono essere considerati una variabile indipendente dal medico. Al contrario, una medicina che non si limita ad usare la chimica o i bisturi, ma sceglie di fare leva anche sulla collaborazione del paziente, deve trovare il modo di favorire questa collaborazione: non lascia che accada, ma la sa far decollare.

Declinare logiche e metodi della medicina narrativa anche in altri contesti e campi dei servizi alla persona (dall’istruzione e formazione, alle politiche attive del lavoro, dalle politiche giovanili a quelle dell’inclusione) appare una pista molto promettente per trasformare la co-produzione da retorica a pratica quotidiana.

 

Parlando con un’altra dottoressa che sta lavorando alla diffusione di questo metodo nella sua struttura in un grande ospedale metropolitano, emerge in maniera chiara che non c’è spazio per la medicina narrativa dove la pratica di ascolto e comunicazione autentica non animi anche le relazioni organizzative. In altre parole, a dirigere servizi orientati all’empowerment del beneficiario (sia esso paziente, studente, disoccupato, etc…) servono leader narrativi, ovvero persone che – attraverso la comunicazione empatica – siano in grado di far sentire i membri di un’organizzazione – soprattutto se a servizio della collettività – protagonisti di un processo trasformativo.

I leader in grado di abbracciare questa sfida hanno il compito di aiutare i membri della propria organizzazione a dare senso alle situazioni complesse, facilitando la costruzione di un racconto collettivo che faccia da cornice interpretativa a disposizione di tutti.

Per farlo, hanno a disposizione tre strumenti:

 

  • La pazienza del racconto: raccontare situazioni specifiche o critiche, attingendo anche alle proprie esperienze professionali, o favorendo la condivisione di quelle dei membri del team, consente di analizzare e riscrivere il senso dell’accaduto, trasformarlo in occasione di apprendimento e di bussola per il futuro. Per farlo, serve avere luoghi e tempi adatti, difesi dal turbinio delle emergenze quotidiane e dai problemi, in genere manifestazione del bisogno di “più tempo per il racconto”.

 

  • Apertura ed empatia: condividere i racconti del proprio fare richiede un orecchio curioso, aperto e non giudicante. Solo se interpretare non è confuso con valutare si creano le condizioni per uno scambio autentico, dove c’è spazio anche per le contraddizioni, i conflitti e le incertezze che emergono fisiologicamente ogni volta che si sceglie di andare un po’ più in profondità.

 

  • Sguardo al domani: ascoltare e raccontare le storie del passato deve servire a consolidare un’idea che orienti a muoversi nel presente e ad immaginare il futuro con più sicurezza e fiducia.

 

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