Sotto la lente

Procurement centralizzato. Servono modelli diversificati per grandi e piccoli enti?

Il procurement pubblico, in altre parole le gare d’appalto per lavori, servizi e forniture nei settori ordinari, cuba 200 miliardi di euro (dato 2023), pari al 10% del PIL.

 

Nel nostro paese, diversamente dagli auspici delle direttive comunitarie, in particolare della 24/2014, il procurement non è mai stato considerato una politica attiva per stimolare sviluppo e innovazione, ma, piuttosto, è stato associato a obiettivi di contenimento della spesa e anticorruzione. Due sono gli attori chiave a livello nazionale, Consip e ANAC. La prima istituita nel 1997 per gestire per gestire i servizi informatici dell'allora Ministero del Tesoro, da cui il nome (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici) e, successivamente, divenuta il braccio operativo delle varie manovre di spending review, attuate a partire dal 2012.  La seconda, un tempo AVCP – Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici – cioè il regolatore del mercato del procurement, trasformata in Autorità Nazionale Anticorruzione nel 2014.

 

Oggi in Italia sono attivi 22.013 Stazioni Appaltanti, di cui 4.554 qualificate (ovvero con i necessari requisiti per la gestione delle gare); 533 centrali di committenza (ossia enti strutturati che gestiscono gare d’appalto per amministrazioni più piccole); 32 soggetti aggregatori (Consip, un soggetto per Regione e altri enti, tra cui città metropolitane, unioni di Comuni e consorzi) e 60 piattaforme di e-procurement certificate. Il nuovo Codice, quale riforma del PNRR, ha ulteriormente promosso il processo di qualificazione dei soggetti deputati a gestire le gare. Tuttavia, la gara è solo una fase del processo di procurement, intermedia tra una fase a monte di analisi e comprensione dei fabbisogni e dell’offerta/mercato e una fase a valle di gestione del contratto.

 

Nel settore pubblico, purtroppo, l’enfasi principale è data alla gara, perché influenzata da regole stabilite da norme di legge e per il radicamento di una cultura del formalismo. La programmazione e la gestione del contratto assume vitale importanza per gli acquisti più complessi, come per esempio quelli in sanità o per i servizi (si pensi, per esempio al servizio mensa per le scuole, per cui è importante definire la domanda e obiettivi strategici associati alla provenienza della materia prima o alla riduzione degli scarti).

 

Per gli acquisti standard esistono obblighi di centralizzazione volti soprattutto ad assicurare un livello ottimale di rapporto prezzo/qualità, grazie alle economie di scala e di specializzazione, con l’obiettivo di efficientare la spesa pubblica. L’obbligo consiste nell’acquistare tramite convenzioni e accordi quadro predisposti da Consip o da altri soggetti aggregatori regionali, a meno che non vi siano condizioni più convenienti – da dimostrare – sul mercato non intermediato dai soggetti aggregatori.

 

Il 20% degli acquisti effettutati dai Comuni segue logiche di centralizzazione per quanto riguarda beni e servizi fungibili come telefonia mobile e fissa, energia elettrica, gas, licenze d’uso per software, manutenzione ordinaria e riparazione di beni immobili, mezzi di trasporto stradali. La rimanente parte, 29 miliardi, è invece gestita in autonomia.

 

Nel corso degli anni è aumentato sia il volume della spesa “presidiata” da Consip, con i suoi strumenti di acquisto centralizzato (80 miliardi nel 2023), sia la spesa “erogata”, cioè l’ammontare speso con gli strumenti Consip (27 miliardi). Tuttavia, la differenza, oltre 50 miliardi, dimostra che esiste un grande spazio di autonomia nelle scelte di acquisto degli enti locali, che spesso si rivolgono al libero mercato o ad altre centrali di committenza.

 

Nell’ambito di una ricerca commissionata a SDA Bocconi da ASMEL, una associazione che riunisce oltre 4.500 enti locali, soprattutto medio-piccoli, abbiamo approfondito quanto e perché gli enti e in particolare i Comuni utilizzano gli strumenti di Consip o in alternativa si muovono in autonomia.

 

I dati ANAC, MEF e ISTAT evidenziano una significativa variabilità nell’adesione che dipende da:

 

  • Categoria merceologica oggetto di acquisto. il 99% dei Comuni compra buoni pasto tramite Consip, mentre meno del 10% aderisce i per acquistare carburante, servizi per la gestione degli immobili, veicoli, strumenti per postazioni di lavoro.
  • Dimensione dell’ente, con i Comuni più piccoli che tendono ad aderire meno a Convenzioni Consip. Da notare che i piccoli Comuni (con popolazione inferiore a 5.000 abitanti) rappresentano il 70% del totale.

 

Dall’elaborazione sulle banche dati, la ricerca ha evidenziato che la spesa relativa al 2023 per abitante per alcune categorie merceologiche (gas, carburante, manutenzione immobili e buoni pasto) è inferiore per i Comuni che non hanno aderito alle convenzioni. Questo spesso in considerazione del fatto che gli strumenti Consip definiscono standard di prodotto e servizio più coerenti alle esigenze dei grandi Comuni. Inoltre, la convezione Consip ha, in genere, il ruolo di determinare il prezzo dominante massimo (funzione cosiddetta “signalling”) con la conseguenza che i Comuni più piccoli possono negoziare condizioni qualità/prezzo migliori e più consoni alle loro esigenze. L’analisi a campione condotta, prima, con un questionario somministrato a 72 Comuni con meno di 50.000 abitanti e, poi, con focus group con alcuni responsabili acquisti ha confermato che gli strumenti Consip, cioè di centralizzazione a livello nazionale, sono scelti quando effettivamente più convenienti, considerando nell’equazione anche il vantaggio di velocizzare le procedure amministrative. In generale, la ricerca ha evidenziato che i Comuni sono in grado di scegliere le soluzioni di volta in volta più convenienti.

 

L’ottimizzazione della spesa è fondamentale per il corretto funzionamento di qualsiasi organizzazione e a maggior ragione della PA; tuttavia, la ricerca evidenzia che un modello “one size fits all” non è adeguato e non basta.

 

A ormai più di dieci anni dall’introduzione degli obblighi di centralizzazione, sarebbe ragionevole individuare i modelli di governance più adeguati soprattutto per rispondere alle diverse esigenze di grandi e piccoli enti locali, con questi ultimi che non solo rappresentano la maggioranza ma giocano un ruolo strategico nell’economia del paese. Basti pensare che nei comuni con meno di 20.000 abitanti è ubicato il 41% sia delle imprese sia del totale dei lavoratori dipendenti privati e si produce il 39% del valore aggiunto nazionale (fonte ricerca CGIA Mestre per ASMEL).

 

Inoltre, non può essere dimenticato il ruolo chiave del procurement nel rafforzamento dell’economia, anche di quella locale. Ciò significa che il procurement dovrebbe contribuire a evitare lo spopolamento dei piccoli centri, contribuendo, quindi, a obiettivi di sviluppo economico/inclusione sociale. Si tratta, come scritto sopra, di finalità incise in modo chiaro nella direttiva 24/2014. Il principio del risultato e altri elementi inseriti del nuovo Codice (D. lgs 36/2023) remano in questa direzione. Tuttavia, serve una maggior consapevolezza, e quindi misure adeguate, a livello di policy – anche regionale- e strumenti di analisi e competenze manageriali a livello locale.

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