Sotto la lente

Che cosa ne sarà dell’impact investing?

Il concetto di «impact investing» è diventato improvvisamente uno degli argomenti più hot nel mondo finanziario e continuamente sorgono nuovi fondi di investimento che dichiarano di operare secondo le modalità proprie dell‘impact investing. Sulla stampa finanziaria internazionale la parola «impatto» è spesso utilizzata per far riferimento agli investimenti ESG, ovvero quella categoria che guarda anche al committment di tipo ambientale, sociale e su temi di governance da parte delle imprese target dei capitali. Ma che cos’è, veramente, un «investimento a impatto»?
Abbiamo condiviso alcune riflessioni sull’evoluzione in corso in questo settore con Luciano Balbo, fondatore di Oltre Venure e tra i primi investitori a impatto in Europa, che nel 2014 contribuì alla nascita dell’Impact Investing Lab di SDA Bocconi.
Il concetto dell’impact investing è nato circa 20 anni fa, soprattutto come modello evolutivo della filantropia e della venture philanthropy, con l’obiettivo di perseguire attraverso nuovi modelli di business scalabili un ritorno finanziario e sociale. Il suo obiettivo ambizioso era quello di superare la netta dicotomia tra profit e non profit, con target di ritorno finanziario più paziente e sostenibile, e di ricercare soluzioni positive attraverso modelli di investimento (prevalentemente secondo le logiche del venture capital) in grado di offrire risposte a bisogni della società in senso lato, e quindi non solo delle sue componenti più fragili. Da questo punto di vista i target di riferimento dell’impact investing, nella sua forma originaria, erano le cosiddette «social impact enterprise», espressione usata per diversificare queste imprese dal modello tradizionale dell’impresa sociale, sia per il modello di business in sé (volto a coniugare le due tipologie di ritorno in una value proposition a impatto e al tempo stesso commercially viable) sia per il gap di domanda a cui dare risposta, rappresentato non solo dalle fragilità della società.
Fino a pochi anni fa il settore è rimasto molto piccolo e sottotraccia, molto focalizzato sulla generazione di modelli di business a impatto in alcune nicchie settoriali di riferimento, come per esempio il microcredito per aspiranti imprenditori non bancabili, l’accesso a servizi sanitari low-cost di alta qualità, la formazione e l’inserimento lavorativo di categorie più deboli come i giovani, i migranti e i disabili. Secondo il Global Impact Investing Network, oggi i numeri mostrano una crescente e costante crescita del mercato (circa +20% all’anno), con oltre 1700 organizzazioni attive con circa 800 miliardi di dollari in gestione. Se dapprima queste organizzazioni erano emanazione di fondazioni e agenzie internazionali (Development Finance Institutions), ora sempre di più il settore è popolato da asset management companies che investono con logiche for profit.
Il tema cruciale di cui è opportuno discutere è se dietro a questi numeri vi sia veramente addizionalità, ossia la ricerca di soluzioni innovative in grado di produrre maggiore impatto rispetto ai modelli esistenti. Infatti, il vero rischio è che l’impact investing perda le sue caratteristiche fondamentali e che diventi semplicemente una rifocalizzazione del venture capital tradizionale. Secondo il report «The State of European Tech», realizzato da Atomico e Orrick, oltre il 20% degli investimenti in VC in Europa è oggi indirizzato a quelle che loro chiamano «purpose-driven tech companies». Altro rischio è che l’impact investing rappresenti una declinazione degli investimenti ESG, quale terreno di approdo di quegli investitori che vogliono evitare il rischio del green o impact washing o che intendono sfruttare le opportunità di rendimento legate a soluzioni di business in qualche modo collegabili ai Sustainable Development Goals.
D’altra parte, se si dà uno sguardo alle start-up finanziate dai fondi a impatto alcuni dubbi sorgono, tra allevamenti di bovini alimentati a foraggio biologico e produzione di bicilette per sostenere la transizione energetica.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di imprenditori e investitori coraggiosi, che guardino a quelle nicchie di mercato che esprimono fabbisogni a cui né il pubblico né il mercato tradizionale né la filantropia sono in grado di dare risposta, con modelli di business che possano essere finanziati e sviluppati con logiche a impatto e poi, casomai, scalati da capitali, sempre a impatto, ma focalizzati sul mercato secondario.
I temi che fino a qualche anno fa animavano il dibattito sull’impact investing sembrano aver oggi perso rilevanza. Tre erano le direttrici di questo dibattito. Addizionalità, cioè la tesi di coloro che possiamo definire «puristi», secondo cui l’impact investing si dovrebbe concentrare su investimenti capaci di sviluppare soluzioni non ancora presenti invece che investire in modelli di business esistenti. Ritorno finanziario, cioè se debba essere privilegiato il ritorno finanziario o quello sociale e quindi, più in generale, se la vera addizionalità sociale non debba intrinsecamente determinare un minor ritorno finanziario, almeno nel breve termine (discussione che ha poi portato alla nascita di due sotto ambiti, impact first e finance first). Misurazione dell’impatto sociale quale parte sostanziale della definizione dell’impact investing, per evitare che l’investimento si basi solo su dichiarazioni. In tal senso, sono sorte molte modalità di misura di impatto ma è evidente che non vi può essere una metrica univoca che possa mettere tutti d’accordo, pertanto l’anelito alla misura rimane fondamentale ma il settore è esposto a forme di interpretazione assai lasche.
All’inizio, il settore si è mosso con l’idea che si potesse costruire una filiera di attori capaci di individuare e realizzare nuove soluzioni a impatto. In sostanza, imprenditori che avessero l’obiettivo di contribuire con nuove soluzioni ai fabbisogni delle comunità; fondi di investimento, cioè intermediari, che li sostenessero e investitori ultimi (asset owner) che scegliessero di allocare parte delle loro risorse in questa attività, anche accettando uno sconto sul ritorno finanziario o comunque tempi di rientro dall’investimento più dilatati. La limitata dimensione del settore non ha permesso sinora di valutare il reale impatto creato. Ma ciò che è evidente è una elevata finanziariazzione del settore che pone un grande interrogativo, e cioè se i modelli di business alla base dell’impact investing possano mantenere il loro DNA quando passano dalla fase seed/start-up allo scaling up. A questo interrogativo, Balbo ha replicato con queste parole: «Iniziamo col dire che l’impact investing è una delle più grandi storie di successo nel mondo della finanza. Improvvisamente negli ultimi due anni il settore finanziario si è impossessato di questo concetto facendone un vero e proprio take over culturale. Oggi tutti i gestori di fondi di investimento stanno avviando fondi di impatto e soprattutto quelli di private equity, che investono in azienda già affermate. L’obiettivo della addizionalità è sparito e si stanno sostituendo a esso metriche che rendono l’impact investing un’estensione degli investimenti ESG. La terminologia del settore è cambiata e non si parla più di imprenditori, di imprese a impatto e di innovazione sociale; ma è l’investitore che individua aziende interessanti dal punto di vista finanziario a cui applicare le proprie metriche sociali. Di conseguenza si riduce l’obiettivo di sviluppare nuovi modelli prevalentemente orientati a creare impatto sociale ma, invece, si tende a identificare impatto sociale in aziende già esistenti». 
In sostanza, il settore sta avendo una crescita esplosiva proprio perché il concetto di impact investing è molto forte e molto attraente e riesce a mobilitare tanti investitori istituzionali che hanno il bisogno, in un momento storico in cui la parola «sostenibilità» è trendy, di mettere nel proprio portafoglio questa tipologia di investimenti. Quanto sta accadendo, seppur con numeri diversi, non è molto lontano da quanto avviene per gli investimenti di tipo ESG, al centro del dibattito in questi ultimi mesi in relazione alla credibilità degli impegni dichiarati dalle imprese. In questo contesto, anche gli investitori fortemente ancorati all’idea originaria di impatto rischiano di perdere il loro DNA e quindi di essere travolti e spostati verso modelli che poco hanno a che fare con il concetto di addizionalità. Questo perché i fondi che promettono impatto a rendimenti più alti, almeno nel breve termine, sono in grado di raccogliere più capitali.
Tanti economisti, come Hart e Zingales, si sono e si stanno domandando se la massimizzazione del welfare possa rimpiazzare la massimizzazione del valore di mercato. I segnali che arrivano dal mercato sono a oggi abbastanza ambivalenti, sia in relazione all’impact investing sia in relazione alla sostenibilità di impresa e alle logiche di investimento ESG, come evidenziato anche recentemente da alcuni ricercatori di Harvard rispetto al reale committment delle imprese che si sono mobilitate con roboanti dichiarazioni.
Gli sforzi regolatori in atto per meglio disciplinare gli investimenti ESG e le pressioni che arrivano da diversi think tank, come quello guidato da Ronald Choen, tra i padri fondatori dell’impact investing, sulla misurazione dell’impact weighted profit, non potranno che aiutare a creare una chiara diversificazione tra ciò che crea effettiva addizionalità e cambiamento e ciò che è un investimento socially compliant o purpose-driven.

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