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Comunicare tra generazioni

Alla base di una comunicazione autentica vi è il desiderio di esprimere se stessi, i propri valori, pensieri e stati d’animo. La propria identità, insomma.

Esistono diverse dimensioni attraverso cui l’identità di un individuo si forma e si manifesta nel tempo, anche se le vere «fondamenta» di quest’ultima si modellano principalmente nei primi dieci-quindici anni di vita. L’identità di una persona costituisce, si può dire, la sua spina dorsale e ciò che contribuisce a plasmarla sono principalmente due tipi di fattori, quelli personali e quelli sociali.

 

Il pensiero e i valori di ogni uomo si fondano infatti su un insieme di caratteristiche personali e, al contempo, su fattori legati al contesto sociale, economico e culturale in cui vive. Mentre le specificità legate alla persona possono cambiare e alternarsi da individuo a individuo, indipendentemente dall’epoca storica (i testardi o gli estroversi, per esempio, sono sempre esistiti), quelle legate al contesto sono tipiche del periodo in cui si colloca il vissuto. È questo il punto nodale da tenere in considerazione quando si analizzano i diversi modi di comunicare delle varie generazioni.

Come si fa per esempio a considerare il modo di esprimersi della generazione Silent senza far riferimento al lungo periodo di guerra che ha attraversato? Se si dovessero infatti identificare tre principi che hanno guidato e che guidano tuttora il loro modo di comunicare, questi sarebbero «essenzialità», «formalità» e «vicinanza». La guerra, come si sa, mette l’uomo in una condizione di totale precarietà, sofferenza e dolore. E’ un esperienza capace di far emergere, a detta di tanti poeti e scrittori, il senso più profondo dell’esistenza. L’uomo sperimenta un disperato bisogno di vivere che scaturisce proprio nell’istante in cui si avverte la vicinanza della morte. Da qui la ricerca dell’essenziale, che si traduce nel desiderio di affermare quei valori e quelle esperienze capaci di sopravvivere anche in circostanze così drammatiche.

 

La consapevolezza della precarietà della propria esistenza porta anche a riscoprire valori positivi come il sentimento di fraternità e il desiderio di unità di fronte a un destino comune. In contesti simili le relazioni diventano essenziali, per cui viene fortemente privilegiata la comunicazione di persona.

 

Un altro valore che in tempi di guerra diventa estremamente rilevante è quello della disciplina. Tutti gli uomini erano chiamati ad arruolarsi. Nell’esercito, rigore e disciplina erano (e sono tuttora) alla base di qualunque azione e comunicazione. Le relazioni in ambito militare sono prima di tutto definite sulla base della gerarchia. Sotto le armi, non si muoveva un passo senza che vi fosse una chiara consapevolezza del proprio ruolo e pieno rispetto dell’autorità. In sintesi, un soggetto appartenente alla generazione Silent è verosimilmente più propenso ad adottare una comunicazione «dritta al punto», formale e se possibile di persona.

 

Poi ci sono i Baby Boomers, i protagonisti per eccellenza della «rivolta» del Sessantotto. Una generazione per lo più caratterizzata dal profondo desiderio di scardinare le istituzioni vigenti e la logica dominante. Desideravano «libertà». Non possedevano una chiara definizione di libertà, né tanto meno ne conoscevano le conseguenze, ma quello di cui erano certi era che volevano un modo di vivere più libero di quello delle generazioni precedenti.

 

Tutto questo si riflette anche nel loro modo di comunicare: indipendentemente dalla posizione ricoperta dall’interlocutore, iniziano a privilegiare una comunicazione diretta e amichevole, in opposizione alla riservatezza che caratterizzava i loro predecessori. Inizia, per esempio, a essere socialmente accettato il rivolgersi ad altri utilizzando il nome proprio della persona, e non il cognome o il titolo. Soprattutto, inizia a essere utilizzato il body language (cioè il linguaggio del corpo). Si comincia a comunicare, infatti, anche attraverso gesti, immagini e modi di vestire.

 

La generazione X segue quella dei Baby Boomers: anche la loro comunicazione è diretta e prevalentemente informale. Tratto distintivo di questa generazione è la diffusione nei primi anni Novanta di Internet, grazie al quale iniziano a prendere campo nuovi mezzi di comunicazione come l’email. Gli individui appartenenti a questa generazione hanno quindi avuto accesso a questi nuovi strumenti verosimilmente intorno ai loro 18-20 anni e, di conseguenza, non possono essere considerati dei «nativi digitali», ma piuttosto «figure ibride». In quanto tali, comunicano facilmente tramite e-mail, ma contemporaneamente valorizzano ancora la comunicazione di persona.

 

Con i Millennials, si apre un nuovo capitolo. I Millennials sono infatti detti anche «la generazione 140 caratteri».

In un mondo caratterizzato da una rapida e continua evoluzione, il saper essere concisi è considerata la dote numero uno. Soprattutto alla luce del fatto che per i nativi digitali la gran parte della comunicazione avviene online. Si passa da un dispositivo all’altro, da un social all’altro, e così l’unico modo per avere una comunicazione efficiente è «lasciare il segno» tramite «pochi concetti, ma chiari» o meglio ancora tramite immagini o video (anche questi della durata massima di cinque-dieci secondi). Seguendo questa logica, si è perfino arrivati a sostenere che per ingaggiare i Millennials in una discussione sia consigliabile parlare alla loro «pancia» e non alla testa. Giusto per sottolineare la necessità di suscitare una reazione immediata per assicurarsi la loro attenzione.

 

È una generazione per la quale la comunicazione del sé regna sovrana. Qualunque mezzo (o quasi) è lecito pur di riuscirci. E le rappresentazioni visive sono le favorite per antonomasia (pensiamo all’uso spasmodico di emoticon). Quasi la metà dei Millennials (47 per cento), per esempio, dichiara di aver almeno un tatuaggio. La maggior parte dei tatuaggi ha un significato e generalmente rappresenta un momento, un nome, o una frase importante nella vita di una persona. Niente sembra fermare i Millennials di fronte all’urgenza di esprimere sé stessi, neanche il fatto che solitamente un tatuaggio «è per sempre». Anzi, questo sembra alimentare la loro motivazione nel farlo proprio per la «portata» del gesto (salvo poi notare come, insieme all’aumento del numero di tatuaggi, sia cresciuto anche il numero di interventi per la rimozione degli stessi).

 

In sintesi, la storia ci dice questo, ci racconta la trama su cui le varie generazioni hanno tessuto i propri valori e le proprie priorità. Non considerare l’evoluzione che lega tra loro nel tempo le diverse generazioni vorrebbe dire concepire ogni singola generazione, non solo quella dei Millennials, come «barbari accampati su un territorio, di cui non conserveranno nulla di quello che ha alimentato la vita dei loro avi», per dirla con le parole di Antoine de Saint Exupéry.

Se si pensa, poi, che la storia (e il tessuto sociale che ne scaturisce) rappresenta «solo» una componente che, per formare l’identità, si deve poi mescolare con la personalità di ognuno, emerge chiaramente l’urgenza di considerare tutti i fattori in gioco. Anche alla luce del fatto che, con la presenza tuttora attiva della generazione Silent in alcuni ambiti professionali e il recente ingresso della generazione Z nel mondo del lavoro, è possibile assistere alla convivenza di ben cinque generazioni diverse a cui, spesso e volentieri, è richiesto di lavorare perseguendo un obiettivo comune. La sfida è grande e per nulla banale. Come si può «navigare l’onda»?

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