
- Data inizio
- Durata
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- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
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L’esperienza italiana dimostra come la mancanza di competenze finanziarie da parte pubblica possa portare a risultati subottimali, con conseguenze potenzialmente anche grave
Il 14 agosto del 2018 ha segnato un punto di non ritorno nella storia delle infrastrutture in Italia: con il crollo del ponte Morandi a Genova, la questione delle concessioni autostradali è entrata con prepotenza nel dibattito pubblico. Al di là dell’accertamento delle responsabilità specifiche, uno dei temi centrali di discussione è stato quello del livello di profitto che i concessionari riescono a estrarre da questo genere di contratti di partenariato pubblico privato (PPP).
I contratti di PPP e/o di concessione consentono ad amministrazioni centrali e locali di ricorrere a capitali e competenze private per realizzare progetti di interesse pubblico. La desiderabilità di questo tipo di contratti, per il pubblico, risiede spesso nell’opportunità di realizzare importanti investimenti senza incidere sul livello di debito pubblico. Inoltre, essi sono particolarmente attrattivi per gli investitori privati dato il basso profilo di rischio sul lungo periodo e la natura anticiclica dell’investimento.
Tuttavia, come hanno evidenziato studi sul PPP in altri settori (per esempio la sanità nel Regno Unito), questi contratti possono generare un’eccessiva profittabilità per il concessionario. Questo avviene come conseguenza delle elevate barriere all’entrata, dovute ai volumi di investimento richiesti, ma soprattutto della mancanza di adeguate competenze finanziarie nel settore pubblico.
Nei contratti di concessione autostradale, il concessionario ha la responsabilità di manutenere, ampliare, rinnovare e garantire l’operatività dell’infrastruttura. In Italia, la remunerazione del concessionario avviene sulla base dei pedaggi pagati dagli utenti; inoltre, il regolatore può assegnare dei fondi extra ad hoc qualora vengano concordati ulteriori investimenti. Poiché la domanda è pressoché rigida, si possono determinare situazioni di eccessiva profittabilità quando le tariffe sono elevate e/o nei casi di livelli subottimali di reinvestimento nell’infrastruttura per la sua manutenzione e miglioramento.
Per verificare la profittabilità effettiva delle concessioni autostradali in Italia, abbiamo condotto uno studio sui 23 contratti di concessione stipulati a partire dal 2007 – quando cioè, in seguito a una serie di provvedimenti legislativi, il regime dei contratti è stato riformato, introducendo un meccanismo di remunerazione dei costi basato sul weighted average cost of capital (WACC, costo medio ponderato del capitale).
Partendo dall’analisi dei dati relativi ai contratti oggetto dello studio, abbiamo calcolato il tasso interno di rendimento (IRR), di progetto e di azionista in relazione, rispettivamente, al WACC e al rendimento atteso sull’equity investito. Dall’analisi è emerso come una differenza positiva tra IRR e costo del capitale implica una profittabilità non coerente con il rischio sopportato dagli investitori.
Particolare attenzione è stata dedicata ad Autostrade, il concessionario privato che controlla la quota più ampia del network (oltre il 40 per cento). In questo caso, è stato effettuato anche un confronto tra i ricavi e i dividendi che erano stati previsti nel piano finanziario della concessione (poi rivisto nel 2013) e i dati effettivamente riportati nella reportistica annuale aziendale tra il 2007 e il 2017.
I dati relativi ad Autostrade hanno palesato che nei primi anni successivi alla redazione del piano finanziario (2007-2009) e alla sua revisione (2013) si è registrato un effettivo allineamento tra ricavi previsti e risultati aziendali; negli anni successivi (rispettivamente 2010-2011 e 2014-2017), tuttavia, i ricavi ottenuti dall’azienda sono stati significativamente maggiori di quanto previsto. Inoltre, nonostante il traffico autostradale sia costantemente diminuito tra il 2007 e il 2013 a seguito della crisi economica, i ricavi del concessionario hanno continuato a crescere sino al 2011 – un dato che si spiega grazie all’aumento delle tariffe. Nel complesso, tra il 2007 e il 2017 i pedaggi riscossi da Autostrade sono cresciuti del 41 per cento, a fronte di una diminuzione aggregata del traffico del 3 per cento.
Un’evidenza complementare riguarda i dividendi reali, che sono stati costantemente superiori a quelli previsti nel piano finanziario: complessivamente 7,67 miliardi di euro nel periodo 2007-2017, a fronte dei 4,85 miliardi previsti.
L’esperienza di Autostrade evidenzia in modo chiaro un eccesso di profittabilità per il concessionario, determinato in buona parte da un sistema tariffario mal congegnato, che ha di fatto finito per sovracompensare la diminuzione del traffico determinatasi in seguito alla crisi finanziaria.
L’analisi mostra che l’eccessiva profittabilità non riguarda solo le concessioni affidate a operatori privati, ma anche quelle assegnate a concessioni a maggioranza pubblica. Inoltre, lo studio fornisce una metodologia di analisi che consente al regolatore di definire correttamente i livelli tariffari e di investimento volti ad assicurare la convenienza e la sostenibilità dei contratti di concessione, che rappresentano un modello molto diffuso, a livello internazionale, per la realizzazione e/o gestione delle infrastrutture economiche, tra cui quelle autostradali. Un elemento essenziale per scongiurare situazioni di eccessiva profittabilità è rappresentato, inoltre, dall’utilizzo di procedure competitive nell’affidamento delle concessioni e dalla durata dei contratti medesimi.
Come dimostra il caso italiano, la definizione dei contratti di concessione non può prescindere da un’analisi puntuale e consapevole degli aspetti economici e finanziari da parte del regolatore. L’obbligo di definire piani finanziari in sede di affidamento o di rinegoziazione della concessione introdotto nel 2007 non è infatti stato sufficiente a prevenire un eccesso di profittabilità: la mancanza di informazioni puntuali nei piani finanziari presentati e le scarse competenze finanziarie all’interno della PA di adeguate competenze finanziarie per poterli correttamente interpretare (la cosiddetta honest incompetence) li hanno di fatto resi poco più di un obbligo formale per il concessionario. Per la parte pubblica, i contratti di concessioni sono così risultati poco vantaggiosi, garantendo un ritorno sull’investimento eccessivo per i privati.
Studi sui disastri regolatori hanno dimostrato come, sul lungo periodo, l’adozione di strategie incoerenti e una mancanza di competenze da parte del regolatore possano impedire una gestione corretta del rischio, determinando eventi potenzialmente disastrosi. L’esperienza delle concessioni autostradali italiane sembra purtroppo confermare una simile dinamica. Tuttavia, la soluzione a questo tipo di problematiche non può essere rappresentata da un semplicistico ritorno alla gestione pubblica. Infatti, quando le concessioni sono ben concepite e monitorate da un competente regolatore possono generare risultati ottimali sia da un punto di vista microeconomico (maggiori efficienze) sia macroeconomico (maggiori investimenti in un contesto di alto debito pubblico, offrendo anche una classe di investimento per gli investitori di lungo termine).