Metà di quello che mangiamo è carbonio. Il carbonio è la base della vita e della maggior parte delle attività umane, dalla chimica ai combustibili fossili, al cemento, alle fibre. Tuttavia sono le stesse attività umane a emettere carbonio che si combina all’ossigeno dando origine al più celebre e più abbondante gas climalterante: la CO2. Oggi, la dialettica tra pubblico e privato sta provando strade alternative per ridurre i gas climalteranti e raggiungere la neutralità climatica, quell’equilibrio in cui le attività umane non incidono sul clima e sulle risorse naturali.
L’Unione Europea ha stabilito che entro il 2050 l’intero sistema economico dovrà essere climate-neutral. La European Climate Law impone infatti che le emissioni di gas serra siano ridotte ed eliminate entro il 2050 e, di lì in poi, che la CO2 assorbita sia superiore a quella emessa dalle attività umane.
Un obiettivo ambizioso che prevede che i cicli del carbonio siano riequilibrati e che può essere raggiunto attraverso 3 azioni chiave: una strategia di decarbonizzazione che prevede la riduzione dell’impiego di fonti di energia non rinnovabili del 95%; il recupero del carbonio dagli scarti e dalle biomasse attraverso l’economia circolare e la bioeconomia; un significativo ampliamento e diffusione delle tecnologie e delle soluzioni per la cattura e lo stoccaggio a lungo termine del carbonio presente in atmosfera.
Il terzo punto è sicuramente quello che più da vicino interessa il settore agroindustriale e che richiede maggiore accelerazione poiché consentirebbe di mitigare rapidamente gli effetti dell’accumulo di CO2 in atmosfera e di guadagnare tempo rispetto all’evolversi di tecnologie pulite. A oggi, i metodi per la rimozione e lo stoccaggio di CO2 si dividono in 2 grandi famiglie: quello tecnologico del carbon capture and storage, con cui si cattura la CO2 direttamente dai processi prima che sia immessa in atmosfera, e quello naturale basato sull’equilibrio dei cicli del carbonio all’interno di ecosistemi resilienti.
È piuttosto noto che la riforestazione e l’esistenza stessa di ampie porzioni di foresta contribuiscano significativamente ad assorbire carbonio dall’atmosfera, ma è attraverso il cambiamento delle pratiche agricole stesse che il settore agroindustriale potrebbe contribuire significativamente alla riduzione delle emissioni di CO2. La produzione agricola incide relativamente poco sul totale della CO2 emessa, ma molto per altri tipi di gas serra come l’ossido di azoto e il metano (300 volte più potente della CO2 in termini di capacità climalterante). L’agricoltura, però, è anche la chiave per assorbire CO2 dall’atmosfera. Attraverso un insieme di pratiche di gestione della produzione in campo che vanno sotto il nome di «agricoltura rigenerativa» è possibile sequestrare e stoccare il carbonio nel suolo, attraverso le radici e le foglie delle piante stesse. In poche, non tecniche parole, è possibile produrre con un saldo di carbonio negativo, assorbendone di più di quello emesso. Senza scendere nel dettaglio tecnico, è scientificamente dimostrato che questo approccio, se opportunamente implementato, oltre a minimizzare l’apporto di fertilizzanti, a ridurre il consumo di combustibili in ragione delle lavorazioni più contenute, a ridurre il rischio di danni da inondazioni e siccità, contribuisce anche al ripristino progressivo dell’ecosistema.
Una forma di agricoltura ecosystem-based (contrapposta a quella input-based, sia essa di origine chimica sia biologica) ha il potenziale per condurre l’intero settore economico alla neutralità climatica. Non una pratica «decrescista», ma un approccio completamente diverso, già applicato a milioni di ettari nel mondo, in cui produzione e sostenibilità trovano la sintesi. Attraverso il carbon farming, nome più accattivante per i tempi che corrono (che include comunque anche la gestione delle aree forestali), si stima che sarebbe possibile sottrarre tra le 4 e le 5 Gton CO2/anno, circa un terzo di quanto sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura a 2°C.
Viene spontaneo però chiedersi per quale ragione, a fronte di così tanti benefici, il carbon farming non sia già il modello di agricoltura dominante e sia invece ancora un tema di dibattito. Gli ostacoli, gli stessi in tutta Europa, sono tecnici, normativi e culturali.
Dal punto di vista tecnico, determinare quanta CO2 venga assorbita su un ettaro di terreno è un’impresa a dir poco ardua e richiede una grande quantità di dati. La capacità di un terreno di assorbire CO2 dipende da moltissimi fattori quali, per esempio, la composizione del terreno, le rotazioni colturali, la localizzazione, le condizioni ambientali ecc. Inoltre, per determinare esattamente la sottrazione di CO2 sono indispensabili campionamenti pluriennali, granulari e comparativi.
Ancora più rilevanti sono gli ostacoli normativi che oggi l’Unione Europea sta cercando di superare, non senza ritardo e difficoltà. Negli ultimi anni, le aziende agricole che hanno implementato protocolli di carbon farming, sono state in grado di generare crediti di carbonio (paragonabili a «certificati bianchi») venduti all’interno di schemi volontari, nella maggior parte dei casi all’interno di una filiera agroalimentare in cui uno o più attori necessitassero di compensare le emissioni derivanti dal processo produttivo. Gli schemi volontari e gli enti certificatori hanno tuttavia seguito metodologie diverse con risultati variabili (vedi ostacoli tecnici di cui sopra).
A questo si aggiunga che è dimostrato che il passaggio dall’agricoltura tradizionale all’agricoltura carbonica implichi un’iniziale riduzione delle rese di prodotto rispetto all’agricoltura convenzionale, almeno per alcuni anni. Nell’ottica di un’azienda agricola, per decenni educata a un’agricoltura industriale quasi di stampo fordista e spesso unicamente concentrata a misurare la capacità di generare liquidità all’interno del singolo esercizio piuttosto che generare valore nel lungo termine, l’incertezza delle rese è il male assoluto. Ancora una volta, quindi, il terzo ostacolo è il retaggio del «si è sempre fatto così» e la mancanza di formazione manageriale nel settore agricolo.
Le soluzioni per aggirare questi impedimenti sono a portata di tiro: normativa, ricerca, formazione. Abbiamo gli strumenti scientifici per calcolare il potenziale di assorbimento, indispensabili per rendere univoco il metodo di valutazione e standardizzare i protocolli agronomici atti allo scopo, ma serve coordinamento tra gli studi e l’accelerazione nella condivisione dei risultati, proprio come è stato per lo sviluppo dei vaccini contro il Covid-19. Visto che questo problema è globale, un sistema di parametrazione standardizzato dovrebbe provenire da una normativa sovranazionale (Europeo nel nostro caso), come sovranazionali sono le emissioni di CO2. La nuova politica agricola comunitaria dovrebbe forse prevedere strumenti specifici per alleggerire l’onere degli studi e facilitare il coordinamento, visto che è nell’interesse di tutti.
Oltre agli studi necessari, la mancanza di uno schema normativo ostacola anche la creazione di un business model del carbon farming, un modello che dovrebbe consentire agli agricoltori di sostenere il reddito agricolo con la vendita dei crediti di carbonio. Certo è che, se gli agricoltori non avranno gli strumenti manageriali per sfruttare questo cambio di paradigma, non potremo che imporlo e sovvenzionarlo, per sempre.
A parere di chi scrive, se comparato ad altri approcci di agricoltura sostenibile, il carbon farming ha un enorme vantaggio: non presuppone di abbracciare alcuna filosofia di vita, ma solo un apprendimento tecnico e gestionale. Questo ne fa uno strumento molto efficace per la sostenibilità del food system, ma serve una spinta a cambiare i modelli di business di intere supply chain agroalimentari, legando sempre di più il valore delle commodities alla capacità di preservare il clima e le risorse naturali.