Il Meglio del Piccolo

Vince chi lo capisce

Il post odierno riguarda il problema numero uno sul tavolo degli imprenditori italiani: la diifficoltà a trovare persone e la carenza di profili di qualità.

Cosa accade quando il lavoro non manca ma a segnare il passo sono i lavoratori? Come affrontare un vuoto di risorse che genera ripercussioni anche sullo sviluppo dell’azienda? Quali strategie adottare per rendere un contesto professionale appealing? Come rispondere alle mutate esigenze dei collaboratori? Se lo stanno chiedendo ormai da molto tempo le piccole imprese italiane che, post Covid, si trovano a fronteggiare una “crisi al contrario” rispetto ai paradigmi classici, in cui a mancare era il lavoro e non il personale. A “soffrire” maggiormente di questa carenza sono soprattutto le PMI, a prescindere dal comparto di riferimento. Il fenomeno è semplice: gli imprenditori vogliono assumere, ma non trovano figure disponibili. La colpa? Se per molti il reddito di cittadinanza ha contribuito ad inasprire questa situazione, per altri, invece, le ragioni sono più profonde e parlano la lingua di un nuovo modello di società. Proviamo a ragionare sulle possibili cause nel tentativo di trovare subito dopo delle risposte adeguate.

  1. Vivere in una società signorile di massa. La propensione delle famiglie italiane al risparmio è ancora rilevante. Questa attitudine ha consentito negli ultimi trent’anni il diffondersi di una mentalità da società signorile di massa. Come afferma e spiega egregiamente il sociologo Luca Ricolfi, questo status sociale ha favorito la disoccupazione volontaria. Questa mentalità porta infatti i più giovani a bypassare le proposte di lavoro che vengono formulate loro quando ritenute poco piacevoli. Questi dinieghi sono spesso supportati dalla famiglia, che permette al giovane di essere disoccupato volontariamente senza fargli mancare nulla. Ne consegue che, per un ragazzo, proseguire senza darsi un limite di tempo nella ricerca di un lavoro ideale sia la scelta naturale.
  2. L’inverno demografico che incombe. Il rilevante calo demografico con cui il nostro Paese si trova a fare i conti ormai da molto tempo non aiuta nella ricerca di persone tra i 20 e i 35 anni. Non voglio entrare troppo nel merito di ma la situazione ormai palese: la riduzione di nascite, in un’ottica di medio e lungo periodo, non facilita, anzi finisce con il determinare la mancanza di personale impiegabile. Mi permetto solo di affermare che le evidenze sono chiare e che le risposte non possono giocarsi solo sul piano degli incentivi economici alle famiglie.
  3. Percorsi scolastici che allontanano i giovani dalle PMI. Esiste un gap enorme tra la domanda di professionalità espressa in questo periodo dalle PMI e la formazione erogata nei corsi delle università italiane. Si arriva quasi ad un paradosso. Quanto più l’ateneo è internazionalizzato tanto minore è l’attenzione al mercato domestico delle piccole imprese. Purtroppo, tocca dirlo con grande rammarico, le migliori università italiane non stanno più supportando il tessuto imprenditoriale del Paese. La preparazione degli studenti, seppur di indubbio valore, non è conforme ai bisogni reali delle piccole e medie imprese. Vi riporto un dato che ha dell’incredibile. Dall’analisi dei programmi dei corsi di laurea triennale delle prime 20 università italiane di Economia, che complessivamente offrono oltre 80 corsi di laurea, soltanto 4 insegnamenti su un totale di circa 1600 offerti, nella nazione della piccola impresa, trattano di PMI. Beffa nella beffa, nessuno di tali corsi è obbligatorio nel piano di studi, risultando invece tutti opzionali. Può quindi accadere che il figlio di un piccolo imprenditore, laureandosi in Economia, non senta mai parlare della rilevanza della piccola impresa e non acquisisca strumenti e logiche adatte all’azienda di famiglia. Non stupisce così che molti neolaureati, compresi potenziali giovani successori, prendano la via dell’estero, dove possono trovare una collocazione in società grandi e multinazionali molto più coerenti con le competenze apprese durante la laurea.
  4. Aspettative alte disattese realtà. Un altro tema da non sottovalutare è quello della distanza tra le aspettative che si generano dopo gli anni di studi e la realtà del mercato del lavoro italiano. I giovani che si stanno laureando in questi anni hanno spesso votazioni altissime, che si fanno volano per aspettative altrettanto elevate in termini professionali. I percorsi di studio inoltre si allungano sempre più. Gli istituti professionali sono malvisti rispetto ai licei cui segue naturalmente l'università. Ma la laurea triennale non basta, sembra non essere nemmeno più sufficiente quella magistrale a cui spesso deve seguire un Master. Si può immaginare come le pretese di qualità del lavoro e del contratto ad esso associato siano crescenti: dopo vent’anni di studi con lodi su lodi, purtroppo non sempre corrispondenti al reale profilo di competenze della persona, accontentarsi è difficile. Sia da parte dei ragazzi che della famiglia, accettare proposte lavorative considerate non abbastanza valorizzanti del percorso scolastico fatto, non è dunque ipotizzabile. Meglio dire di no e attendere qualcosa di meglio.    
  5. La carriera e gli incentivi monetari non sono più i soli fattori motivanti. Gli anni successivi alla pandemia hanno fatto scoprire alle persone la possibilità di un modo di lavorare diverso che mette in discussione il postulato del lavoro prima di tutto, del dovere prima del piacere e del tempo libero. Accade sempre più spesso che persone giovani, con livelli di stipendi soddisfacenti, manifestino apertamente di dare priorità alla vita personale piuttosto che a quella professionale. La carriera e tutto l’impegno necessario per compierla, per gli esponenti di una società signorile di massa, perde di fascino rispetto alla possibilità di avere grandi spazi di autonomia nella propria vita. Per questi profili l’attrattività dell’ambiente di lavoro non è più collegata al tradizionale incentivo monetario ma alla flessibilità concessa nel balance tra lavoro e tempo per sè.

Potrei proseguire inserendo anche il dato, purtroppo crescente, della fragilità psicologica delle persone “sazie da morire” ma direi che il quadro appare già abbastanza completo.

Torniamo alle domande di partenza. Come può muoversi un imprenditore in questa landa desolante dove il lavoro un tempo elemento nobilitante per la persona sembra non avere più molto senso?

Innanzitutto avere consapevolezza: il problema numero uno oggi è questo e occorre dedicargli tempo, energie, investimenti molto più che in passato. Occorre acquisire progressivamente una sensibilità al tema delle persone e del personale perché è e sarà sempre più oggetto di concorrenza tra le aziende. Vince chi lo capisce.

In secondo luogo bisogna imparare a sottolineare le diversità positive della piccola impresa rispetto alle grandi multinazionali, che delle procedure fanno la loro essenza. Le piccole e medie imprese, invece, mettono al centro le relazioni e fanno delle persone il loro focus. Sono naturalmente promotrici, proprio per le loro ridotte dimensioni, di una visione persona-centrica, in cui le risorse sono patrimonio basilare per l’azienda e trampolino per concorrere alla sua evoluzione. Nelle grandi imprese contano i processi e le cordate di potere, nelle piccole contano le persone e le relazioni. Vince chi lo fa capire.

Per contrastare quei fattori culturali avversi è fondamentale inoltre che la piccola impresa impari a comunicare verso l’esterno la propria capacità nel generare progetti nuovi e sfidanti, in cui il collaboratore possa misurarsi e sperimentarsi anche in autonomia, senza troppi vincoli di struttura e di procedure. L’inserimento dei nuovi assunti è fondamentale per assicurarsi la permanenza della risorsa. Il dipendente deve essere curato, supportato e motivato, ma anche debitamente responsabilizzato e reso autonomo. E’ importante che si possa sentire parte di un progetto di valore, in cui il suo contributo è primario.

Ascoltare, orientare, valutare e valorizzare le persone, sostenendole anche in momenti di criticità e nell’affrontare le loro fragilità, non deve però essere più compito esclusivo dell’imprenditore. Questa mentalità di ascolto e sostegno, per essere efficace, deve infatti permeare tutta l’organizzazione aziendale a partire dai responsabili dei singoli reparti.

Attenzione alla persona e pratica autentica di questa cura sono i veri antidoti alla fine del lavoro nelle piccole imprese.

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