Visione e responsabilità, le forze del cambiamento per il settore pubblico

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Agire nel presente immaginando il futuro. È quello che deve fare il settore pubblico se vuole trasformarsi da semplice erogatore di servizi a motore dello sviluppo. Se non vuole limitarsi a gestire lo status quo, ma essere legittimato a governare un mondo che cambia. Ne è convinta Greta Nasi, Director of Research for Government e SDA Professor of Public Management and Policy a MPA - Master of Public Administration. Che ci ha spiegato come le emergenze possono trasformarsi in opportunità e come le persone possono cambiare le amministrazioni dal di dentro.

In che modo oggi il settore pubblico può governare le sfide globali?
Principalmente imparando a interpretarle in prospettiva, staccandosi per quanto possibile dalla contingenza temporale e in alcuni casi dall’ottica emergenziale. Penso ad esempio al fenomeno dei migranti, che domani potranno essere residenti o cittadini. Penso anche alla sfida tecnologica in un’arena globale in cui si muovono player del calibro di Google o Facebook, aziende con un fatturato che supera il Pil di molti paesi in via di sviluppo. La prima cosa che il settore pubblico deve fare è dotarsi degli strumenti per leggere dinamicamente tali fenomeni: non solo “cosa sta succedendo?” ma anche “cosa succederà nei prossimi 20 anni?”. È un’impostazione distante dalla mentalità tradizionale del pubblico, che fino a non molto tempo fa si preoccupava semplicemente di erogare servizi prestabiliti e di valutare tali servizi con parametri essenzialmente quantitativi: ho aumentato del 20% i posti all’asilo nido ma non mi preoccupo di capire se la mia offerta è adeguata alla domanda, allo sviluppo del tessuto demografico e sociale di quella zona, alle esigenze delle nuove tipologie familiari e così via.
Il settore pubblico, in verità, ha già fatto dei passi avanti in questa direzione ma tende sempre a “fotografare” la situazione, a leggere l’esistente. Fa ancora fatica a guardare in avanti e oltre i confini della sua competenza territoriale. Faccio l’esempio di Milano, la città sicuramente più internazionale d’Italia: se l’amministrazione vuole cogliere le opportunità legate alla Brexit e diventare un polo di attrazione per le aziende straniere deve capire e porre oggi le condizioni per lo sviluppo di domani, pensando ai requisiti infrastrutturali e a tutti i servizi che serviranno alle aziende e ai loro dipendenti e che attualmente mancano. Bisogna saper anticipare i bisogni che emergeranno possibilmente non “subendo” ma ponendo le condizioni di partenza e definendo gli obiettivi a lungo termine, cioè avendo una “vision” e capendo quale direzione seguire per realizzarla. Questa è una condizione necessaria – forse non sufficiente ma sicuramente necessaria – per affrontare con successo le sfide globali.

Qual è il principale motore di cambiamento nel settore pubblico?
La questione qui si allargherebbe al rapporto tra politica e amministrazione: la prima dovrebbe tracciare la strategia, la seconda applicarla. Il problema – in verità non solo italiano – è che spesso la politica non si occupa di strategia, agisce a corto raggio. Ma qui il discorso si allargherebbe troppo.
Per restare alla domanda, credo che il primo fattore di cambiamento stia nel rendersi conto che né il settore pubblico né quello privato (o il terzo settore), da soli, possono fronteggiare con successo le sfide che ci attendono. La risposta quindi è: fare sistema. Si tratta di trovare le leve per nuovi spazi di collaborazione e di sinergia tra i diversi settori. Chiaramente nel dna del privato c’è l’obiettivo del profitto, il bisogno di ottenere risultati economici (anche) nel breve periodo. Il pubblico invece non ha questo vincolo, la performance economica non è un suo obiettivo istituzionale. Come possono parlarsi? Trovando obiettivi comuni, pur continuando ciascuno a fare il proprio lavoro e a perseguire scopi differenti. Entrambi hanno l’interesse, ad esempio, ad avere un contesto sociale, urbano e ambientale attraente ed entrambi possono essere chiamati, ciascuno col proprio ruolo, a lavorare per ottenerlo. Un esempio emblematico di questa alleanza strategica tra pubblico e privato è quello di Barcellona: per ogni euro speso dall’amministrazione per creare la smart city – l’innovazione digitale applicata a diversi servizi pubblici, dai parcheggi alla raccolta dei rifiuti – i privati ne hanno erogati 53. E non in un’ottica di partnership dove il privato ha un ritorno economico immediato (ad esempio un canone), bensì condividendo un obiettivo strategico generale: rendere la città più seducente per individui e organizzazioni, attirando tanto la forza lavoro qualificata quanto le grandi aziende internazionali. Con evidenti benefici a lungo termine per entrambi gli attori.

Nell’ottica dell’amministratore pubblico è cambiato il concetto di sviluppo sostenibile?
Per rispondere a questa domanda mi vengono in mente le risposte che gli studenti mi danno quando chiedo loro dove vorrebbero andare a lavorare e vivere. Le mete desiderate sono quasi sempre la grandi città trend-setter, che molto spesso non sono capitali: Barcellona è un esempio, ma penso a New York per il Nord America o a Shangai per la Cina. O a Milano per l’Italia. Voglio dire che sempre di più si identificano dei luoghi in cui “le cose succedono” e sono i centri ad alta urbanizzazione con grande concentrazione economica e culturale. Lo sviluppo sostenibile deve necessariamente passare di lì. Le amministrazioni di quelle città devono avere la possibilità e la capacità di compiere scelte autonome, in sintonia ma non subordinate a quelle dei governi centrali. Devono poter agire su un piano diverso per governare le grandi sfide. E, ripeto, devono avere lungimiranza, sapere dove vogliono andare, non rincorrere gli eventi e le emergenze. Al giorno d’oggi per il settore pubblico sviluppo sostenibile significa soprattutto questo.

Quali sono le competenze manageriali nel settore pubblico necessarie per spingere e governare queste trasformazioni?
Innanzitutto un forte orientamento al risultato, evidente nell’esempio di Barcellona ma che da noi ancora manca, perché nella nostra tradizione amministrativa predomina l’impronta giuridica e le carriere sono segnate più da requisiti di forma (titoli, anzianità di servizio) che di sostanza (attitudini e competenze individuali). Il rispetto della normativa resta il criterio di azione prevalente e gli strumenti manageriali introdotti dalle riforme più recenti restano spesso inutilizzati perche manca un’adeguata formazione delle persone.
Poi servono una forte accountability – la voglia e la capacità di prendersi delle responsabilità – e la visione d’insieme: se sei responsabile di un ufficio e di un settore non puoi dimenticarti di far parte di un sistema più grande, che ha al suo interno delle necessarie (e opportune) interconnessioni. E a questo scopo è importante anche sviluppare buone doti di negoziazione.

In qualità di responsabile di un programma come MPA, è possibile secondo lei fare una formazione per il settore pubblico transnazionale, che non sia condizionata dalle specificità locali?
Non solo è possibile ma è anche necessario, proprio per compiere il salto di mentalità di cui parlavo, quello che ti consente di spostare lo sguardo dal contingente al generale, dai problemi del “qui e ora” alle sfide globali del futuro. Il nostro MPA in questo è avvantaggiato da due fattori: uno è quello di svolgersi a Milano, una città sempre più internazionale e trend-setter, appunto, più lontana di altre dalla tradizionale impronta amministrativa italiana; l’altro consiste nel trovarsi all’interno di una business school, caratteristica rara tra gli MPA: questo ci consente di conoscere e parlare il linguaggio del privato e del pubblico e soprattutto di sapere farli comunicare tra di loro. Un requisito fondamentale per le ragioni che abbiamo visto.

A questo proposito, che peso ha la formazione nella creazione di questo nuovo manager pubblico?
È un fattore strategico, direi. Un altro elemento da non sottovalutare è l’accelerazione del cambiamento del contesto. Senza dubbio nel settore pubblico le cose si muovono più rapidamente che in passato e ciò significa che il manager pubblico non può fermarsi. Non è più possibile dire “ho formato le mie persone”; si può solo dire “le ho formate per questo contesto”, sapendo che tra dieci anni il contesto non sarà più lo stesso. Ancora una volta il punto è: il manager pubblico deve esser in grado di leggere il contesto attuale per cercare di immaginare quello futuro. La formazione serve proprio a fornire questi strumenti di interpretazione e “previsione”, a imparare a cogliere le direttrici del cambiamento e governarle anziché subirle. Torno alla questione dei migranti: oggi è vissuta dall’opinione pubblica e dalle stesse amministrazioni come una “emergenza”; ma le emergenze possono diventare un problema o un’opportunità, a seconda di come vengono affrontate. Ci chiediamo, ad esempio, che competenze hanno queste persone e in che modo possono essere inserite nel mercato del lavoro? Qual è la loro spending capacity, spesso ignorata o sottovalutata? O la loro capacità di risparmio? Ecco, un manager pubblico deve farsi tutte queste domande e deve dare delle risposte per il presente e altre, diverse, per il futuro.
Saper spostare il punto di osservazione – geografico, culturale, operativo: è questa la grande sfida. E la formazione può fare molto. Intendiamoci, non è un lavoro facile ma è il lavoro più importante che oggi un manager pubblico possa fare per il proprio futuro professionale e probabilmente l’investimento di maggior valore per l’intero settore pubblico.

SDA Bocconi School of Management

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