Il gusto e la forza di innovare nelle Pubbliche Amministrazioni

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Non un manager privato “adattato” alla pubblica amministrazione né un funzionario intrappolato (e deresponsabilizzato) dalle procedure. Il nuovo modello di manager pubblico ha la consapevolezza e l’orgoglio del proprio compito e delle proprie specificità e sa guardare alla complessità e ai vincoli imposti dal contesto in cui opera. Tutte competenze che si possono apprendere e consolidare, come sottolinea Raffaella Saporito, direttore di EMMAP - Executive Master in Management delle Amministrazioni Pubbliche. La quale, alla luce dei recenti interventi legislativi, ci ha spiegato perché il cambiamento della pubblica amministrazione non può essere lasciato solo alle riforme normative ma deve passare dalla diffusione di un nuovo modello di leadership.

Valutazione della performance e meritocrazia sono due concetti che da sempre vengono invocati per la pubblica amministrazione in Italia. Siamo ancora ai “desiderata” o quest’ultima riforma introduce novità concrete? 
Possiamo dire innanzitutto che un primo effetto positivo comune a tutte le riforme della pubblica amministrazione è quello di riportare l’attenzione sulle persone che vi lavorano aumentando il loro coinvolgimento. Inoltre l’elemento di maggior efficacia di quest’ultima riforma è il più ampio spazio di autonomia che viene dato alle amministrazioni, a fronte di elementi di eccessiva rigidità introdotti dagli interventi precedenti (mi riferisco, ad esempio, al superamento delle piante organiche). Ciò detto, non è dalle riforme che possiamo aspettarci un cambio di passo sostanziale, ed è una considerazione che prescinde dal merito delle riforme stesse. L’esperienza degli ultimi trent’anni ci ha insegnato che le riforme possono essere una cornice incentivante, ma il vero cambiamento parte dalle persone all’interno delle singole amministrazioni. Se non c’è un coinvolgimento attivo di chi lavora nelle amministrazioni si rischia solo di immettere strumenti manageriali funzionanti sulla carta ma che ben presto vengono burocratizzati e, di fatto, resi inutili. Inoltre il clima politico e culturale degli ultimi anni ha spinto spesso a considerare le riforme come “giri di vite” fatti per castigare le inefficienze pubbliche, quasi degli interventi “contro” invece che “per” la pubblica amministrazione. È un approccio che non genera certo un cambiamento valido e duraturo.

Se quindi il fattore normativo non è il vero motore del cambiamento, qual è la parola-chiave della nuova pubblica amministrazione?
Penso che la parola chiave sia leadership.  L’instabilità politica, l’incertezza del quadro normativo, l’inesorabile riduzione delle risorse economiche, la rigidità dei sistemi di carriera, i vincoli burocratici, la pressione sulla correttezza formale invece che sostanziale sono gli elementi che fanno sentire “in trappola” molti dirigenti. Ebbene, da questo cul-de-sac non si esce con le riforme, ma con più leadership diffusa.
Detta così, mi rendo conto che può sembrare uno slogan, ma in verità quello di leadership è un concetto molto preciso che può essere declinato concretamente. Per semplificare, potremmo dire che è uno sguardo aperto sulla realtà capace di liberare il senso di possibilità e di azione. Non stiamo parlando di un’attitudine innata, ma di una competenza che si allena.

A proposito di leadership possiamo dire che negli ultimi anni è passata l’infatuazione per un modello manageriale di stampo privato da applicare tale e quale alla pubblica amministrazione. Ci si è resi conto che servono manager ad hoc. Esiste già questa nuova figura di manager pubblico?
Direi che l’infatuazione è passata perché nei decenni scorsi il modello privatistico applicato al pubblico ha avuto esiti controversi. In alcuni casi, i manager arrivati da altri settori hanno portato un contributo molto valido. In altri, invece, si sono scontrati con la difficoltà di comprendere un contesto fatto di vincoli che non possono (e non devono) essere elusi ma gestiti, ricondotti al loro senso per evitare che la legittima formalità dell’azione amministrativa diventi formalismo e autoreferenzialità. Fondamentalmente questi manager non hanno saputo adeguarsi alla complessità di quel mondo, dei suoi fini, delle sue logiche, che non sono patologie del sistema ma fanno parte della sua fisiologia. A questo si è aggiunta in ultimo la crisi economica che ha messo in crisi il modello di efficienza dei mercati facendo emergere “un gran bisogno” di pubblica amministrazione.
Quanto alla nuova figura di manager pubblico, c’è già anche se non sempre è riconosciuta. Non si può pensare di valorizzare questi ruoli solo con l’ingegnerizzazione dei sistemi di performance o sanzionando il mancato raggiungimento degli obiettivi, occorre restituire loro un’identità forte e anche collettiva.

Se, come diceva prima, la leadership è una competenza che si allena, quanto conta la formazione nella creazione di questa figura di manager pubblico?
La leadership si sviluppa prima di tutto allenando uno sguardo diverso su di sé e sulle possibilità e gli spazi di manovra che si hanno. Il che significa alcune cose precise.
La prima consiste nell’allineare visione politica e vincoli amministrativi. Il rapporto politica-management caratterizza i processi decisionali nelle amministrazioni pubbliche, ma il modello dominante del “principale-agente” ha mostrato alcuni limiti (ne sono una prova la scarsa efficacia dei sistemi di retribuzione di risultato). Da qui la necessità di ricostruire l’alleanza tra le due funzioni, tecnica e politica, su un terreno di valori e competenze condivisi.
È necessario poi stimolare impegno e motivazione nel pubblico impiego, che non sono solo un merito o un demerito delle persone, ma soprattutto il frutto della leadership. Nelle amministrazioni pubbliche attualmente si tende a ridurre la motivazione al puro risultato dell’ingegneria incentivante, che però rischia di funzionare poco perché la leva economica è spuntata dalla scarsità di risorse; ma anche se le risorse per la produttività fossero maggiori, correremmo il rischio di utilizzarle male e con effetti opposti a quelli desiderati. Le buone pratiche sulla motivazione e l’impegno dei dipendenti pubblici mostrano che a fare la differenza è la capacità dei leader di aiutare i collaboratori a non perdere di vista il valore di quello che fanno, per la collettività e per sé.
È necessario anche formare leader capaci di guardare al risultato senza perdere di vista la regolarità procedurale che, come dicevo, è una peculiarità necessaria per la PA e non può essere liquidata come intralcio burocratico.
Infine occorre connettere risorse, stimolando la collaborazione tra le parti, requisito quanto mai prezioso in un’epoca di frammentazione di risorse, competenze e responsabilità tra enti e livelli amministrativi, nonché tra pubblico, privato e terzo settore, cosa che rende urgente cambiare le logiche con cui ragioniamo di servizi pubblici e lo stesso processo di policy making. Più in generale, si tratta di sviluppare competenze di gestione “nei” network più che “dei” network, evitando il rischio di riprodurre e perpetuare logiche gerarchiche e burocratiche per gestire fenomeni che funzionano diversamente.


Partendo dalla sua esperienza in EMMAP, quali sono le leve per raggiungere questi obiettivi?
Oltre agli strumenti operativi indispensabili, come il controllo di gestione, il performance management o il sistema di valutazione, è necessario fornire strumenti cognitivi più ampi che consentano di leggere e decodificare un contesto complesso. La “cassetta degli attrezzi” più importante per il manager pubblico è la batteria di domande-chiave che si deve fare nei momenti critici.
Uno dei feedback più ricorrenti che riceviamo dagli allievi di EMMAP, anche dopo anni che hanno frequentato il master, è proprio questo: “avere imparato a leggere i vincoli di contesto con delle categorie nuove mi ha aperto delle possibilità di azione”. Mi viene in mente una giovane manager di un ente locale (segretario generale di un comune) che ha ribaltato il sistema di relazioni con i portatori di interessi locali in un processo di trasformazione urbana importante, a vantaggio del comune e quindi della parte pubblica. È bello anche vedere che almeno due o tre partecipanti di ogni edizione diventano direttori generali o si spostano in enti di maggiori dimensioni. E alcune opportunità si aprono anche grazie alla rete professionale che questa esperienza permette di allargare, sia coi docenti che tra partecipanti, anche di edizioni diverse. Ciò detto, io sono d’accordo con Mintzberg, star mondiale del management e della strategia, che sostiene che il valore di un master non si misura solo in termini di carriera successiva ma innanzitutto per quanto aiuta a ricoprire al meglio il ruolo attuale, con più efficacia e anche con più piacere.
Per far questo è necessario avere un set didattico molto variegato ed esperienziale che abbina ai momenti di aula anche progetti sul campo, cioè nelle amministrazioni di appartenenza dei singoli partecipanti. In EMMAP, ad esempio, gli sviluppiamo gli Action Learning Projects che sono attività di gruppo per risolvere situazioni critiche concrete e allenare la capacità di approccio allargato ai problemi. O il Percorso Your Self, novità di quest’anno, per individuare i punti di forza e di debolezza del proprio stile di leadership e lavorare sul potenziamento tramite la tecnica del coaching individuale.
Insomma, vogliamo che l’acquisizione principale che porta a casa – e nella amministrazione – chi esce da un Master come EMMAP sia il gusto e la forza di fare diversamente e di fare meglio.

SDA Bocconi School of Management

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