Ursula von der Leyen, nel discorso al Parlamento Europeo di scorsa settimana identifica tra le priorità di questo prossimo mandato l’accesso alla casa: “le persone faticano a trovare case abbordabili. Ecco perché – per la prima volta – nominerò un Commissario con responsabilità dirette sull’housing. E svilupperemo un Piano Europeo dell’Abitare Accessibile”. Una buona notizia, con alcuni punti da chiarire.
La prima buona notizia è che il tema della casa non è più solo un’ossessione delle grandi metropoli e dei governi nazionali: ora è priorità della stessa Unione. Un report dello scorso anno di Housing Europe dice che 47 milioni di persone in Europa sono esposte al rischio di povertà abitativa, cioè persone che vedono la propria spesa per l’abitare (affitto, ma anche utenze e spese collegate) superare il 40% del reddito familiare. Le ragioni di questa crisi che coinvolge soprattutto le grandi città sono diverse: da un lato l’aumento dei costi dell’abitare, per effetto di politiche di investimento immobiliare di tipo speculativo unite all’aumento dei costi di costruzione e dell’energia, senza un proporzionale e generalizzato aumento dei redditi; dall’altro una profonda trasformazione dell’offerta, caratterizzata dalla riduzione degli investimenti pubblici in soluzioni abitative a canoni inferiori a quelli di mercato contestuale all’esplosione degli affitti brevi che ha ridotto lo stock destinato all’abitare.
Pertanto, la scalata nell’agenda politica europea dei temi dell’housing non può che essere accolta come una buona notizia. Fino ad oggi, infatti, sono state davvero modeste le misure messe in campo dall’Unione su questo terreno, in cui i governi nazionali (e le amministrazioni locali) si sono mossi in ordine sparso su iniziative poco coordinate: tranne isolate iniziative più d’impatto simbolico che economico (ad esempio nel quadro della Urban Agenda, l’iniziativa dell’Housing Partnership Action Plan, che propone una lista di azioni per affrontare il tema della casa in Europa) il coordinamento delle politiche dell’accesso alla casa sono quasi una novità sui tavoli di Bruxelles.
Non mancano però i punti di attenzione.
Il primo è che il processo di istituzionalizzazione delle politiche tende a costruire silos granitici ed autoreferenziali e questo effetto sul tema casa potrebbe avere effetti disastrosi sulla ricerca di soluzioni efficaci per affrontare il tema dell’abitare abbordabile, vista l’interdipendenza con altri fenomeni sociali complessi. Non si tratta solo di guardare alla casa come infrastruttura delle politiche di welfare, in chiave di inclusione sociale: sempre di più le politiche per la non autosufficienza, soprattutto degli anziani, per la salute mentale, rifugiati, tutela dei minori, tutela dalla violenza di genere e altre forme di discriminazione sessuale, passano per la messa a disposizione di nuove soluzioni abitative. Infatti, oltre ad essere un ingrediente essenziale delle politiche riparatorie, la casa può svolgere anche (e soprattutto) un effetto di volano per lo sviluppo sociale ed economico. Se si sono già esplorati i vantaggi dell’integrazione con le politiche della sostenibilità ambientale dell’abitare (la povertà abitativa è anche il prodotto della povertà energetica), occorre connettere (o forse sarebbe più corretto dire ri-connettere) la casa con almeno altri tre temi tra loro interdipendenti e quasi coincidenti: il lavoro, le migrazioni, i giovani. In passato, la costruzione dello stock abitativo pubblico – e non solo – è spesso stata intesa come offerta di un’infrastruttura economica prima ancora che sociale a servizio del modello di sviluppo, come risposta ai movimenti di (giovani) lavoratori in arrivo da altri luoghi (altre regioni del proprio paese o altri paesi europei). Recuperare la vocazione sistemica delle politiche della casa e la loro connessione con lo sviluppo del mercato del lavoro per le sue caratteristiche contemporanee significa smettere di guardare al bisogno di casa solo dei giovani che si spostano quando studenti universitari, ma interrogarsi su come favorire nuovi modelli di abitare che diano sicurezza e stabilità nella fase di transizione verso l’età adulta, insieme alla flessibilità e mobilità che sempre più caratterizza il lavoro contemporaneo: secondo stime di Housing Europe su dati Eurostat, in Europa sono 9,6 milioni i lavoratori full-time tra i 25 e i 34 anni che nel 2022 vivevano ancora coi lori genitori. Quindi, benissimo un Commissario Europeo ai temi dell’housing, se lui o lei saprà lavorare in chiave integrata e trasversale alle politiche di sviluppo economico e coesione sociale, invece che a silos.
Un secondo punto di attenzione riguarda la strategia di intervento del piano di housing che il nuovo commissario dovrà traguardare. I modi per assicurare l’accesso alla casa possono essere diversi e variare a seconda dei contesti e delle diagnosi, spesso radicate nei contesti locali. E, probabilmente, solo un mix coordinato di interventi, che punti a regolare il mercato residenziale privato (affitti brevi inclusi, ma non solo questi e non solo gli affitti) e a sostenere sia l’offerta, sia la domanda, con riguardo alle fasce di popolazione più vulnerabili, può consentire di raggiungere traguardi significativi. Ma proprio per la complessità del tema, occorre evitare semplificazioni nelle soluzioni. L’idea di un piano di investimenti con un mix di capitali pubblici e privati che favorisca l’aumento dello stock abitativo è certamente da accogliere con entusiasmo, se saprà tenere in conto almeno tre aspetti.
Primo, è evidente che la pressione abitativa si fa maggiore nelle grandi città: scegliere di aumentare la dimensione delle metropoli richiede di prevedere e trovare soluzioni sostenibili per controbilanciare l’aumento della domanda dei servizi di pubblica utilità, dall’acqua, all’elettricità, ai servizi di trasporto, fino al bisogno di sicurezza. Farsi trovare impreparati rispetto a queste sfide potrebbe avere conseguenze critiche.
Secondo, l’aumento dello stock di edilizia residenziale non basta di per sé ad abbattere la povertà abitativa: se si vuole assicurare un’offerta di casa a prezzi calmierati anche tramite capitali privati, la loro remunerazione in operazioni di edilizia residenziale sociale (per quanto si contengano i costi dell’investimento privato con interventi pubblici di riduzione del costo del credito o di componenti di fondo perduto) rischia di non poter arrivare solo dai canoni, senza tagliare fuori le fasce di popolazione economicamente più fragili. Pertanto, occorre rimettere in gioco tutte le variabili del modello di business: chi paga, quanto, per quanto tempo, secondo quali principi di inclusione sociale e inter-generazionale. I modelli possibili sono diversi (uno studio che stiamo realizzando nell’ambito del progetto Horizon HouseInc li sta classificando tutti) e occorre affrontare alcuni potenziali trade-off.
Infine, vi è un tema di redistribuzione della ricchezza: oggi una giovane coppia può legalmente affittare una casa che costa più del 40% della somma del reddito familiare, ma non può accedere ad un mutuo con una rata ben inferiore al suddetto canone, senza le garanzie offerte da un mondo del lavoro che non esiste più (o da genitori benestanti e non troppo anziani). Quando si pensa all’espansione dello stock abitativo – soprattutto se sono in gioco anche risorse pubbliche – occorre porsi il tema della proprietà degli immobili che si vorranno costruire. Se da un lato favorire la concentrazione della proprietà su pochi soggetti per favorire il mercato di affitti sociali può sembrare più coerente con un’idea di abitare più flessibile e contemporanea, dall’altro occorre non perdere di vista che l’accesso alla proprietà diffusa può tornare ad essere uno strumento di mobilità sociale e redistribuzione della ricchezza, come alcuni esperimenti di garanzia per l’accesso alla prima casa hanno dimostrato.