#ValorePubblico

Scegliere il lavoro pubblico. A quarant’anni

Recentemente, in occasione di un corso di formazione, ho incontrato una ventina di funzionari di un grande ente locale italiano entrati da poco nella PA, benché non più giovanissimi. I colloqui individuali con ciascuno di loro mi hanno aperto un mondo. Eccone un pezzetto.

Perché lasciare il privato, per il pubblico

Molte delle persone che ho incontrato sono funzionari entrati nella PA da poco tempo, in genere con la nuova ondata di concorsi ripartiti dopo il 2018. Ci si potrebbe aspettare una nidiata di ventenni al primo impiego. Sbagliato. Hanno in genere tra i 30 e i 55 anni e hanno quasi tutti un’interessante esperienza professionale nel privato. Tranne il classico caso del neolaureato in giurisprudenza che mentre prepara il concorso in magistratura ‘inciampa’ in un altro bando e lo vince, la maggior parte sono professionisti che hanno scelto di cambiare vita, approfittando delle opportunità offerte dalla PA.

Ci sono giovani ingegneri, architetti, avvocati stufi di lavorare per studi dove le loro competenze sono sfruttate, la condizione economica precaria, nonostante gli anni di esperienza, anche in ragione dei difficili anni passati: chi ha oggi poco meno di 40 anni è entrato nel mercato del lavoro in piena crisi economica post 2008 e da allora non ha mai avuto vita facile.

C’è chi – donne, ma anche uomini – era stufo di culture organizzative dove più che la competenza è premiata la disponibilità a lavorare a qualunque ora del giorno (e non solo), weekend inclusi, rendendo così impossibile un progetto di famiglia.

E c’è anche chi ha dato una svolta alla propria vita laureandosi (o con una seconda laurea) in età adulta e a seguire ha deciso di mettere a frutto il proprio sforzo preparando un concorso pubblico.

Le brutte sorprese

La prima brutta sorpresa per molti di loro è il senso di solitudine ed estraneità nel nuovo luogo di lavoro. Chi cercava di fuggire da studi dominati da soci anziani espressione di culture professionali polverose e asfittiche si trova in uffici dove sono quasi tutti piuttosto avanti con l’età: capi, colleghi e, soprattutto, collaboratori. Arrivano pensando di poter mettere a frutto le proprie esperienze professionali e si trovano ad essere apprezzati per il fatto di automatizzare un pezzetto di lavoro proponendo l’utilizzo di un foglio Excel. In pochi, e solo negli ultimi mesi, hanno visto abbasare l'età media degli assunti, grazie ai concorsi più recenti. In pochi sono a capo di team di under trenta. La maggioranza coordina il lavoro di colleghi ben più avanti con l'età. Se non incontrano un capo illuminato e capace di valorizzare l’esperienza maturata, si trovano a essere trattati come ‘i giovani’ che devono fare tutta la gavetta, a partire dalle regole non dette su turni, orari e ferie. Quando provano a proporre modi diversi di affrontare un problema, negli occhi dei colleghi più anziani si accendono panico, diffidenza, stizza: c’è chi si sente minacciato dalla sola idea di dover imparare una cosa nuova, chi teme di perdere spazi di autonomia, chi di essere giudicato da chi ‘viene dal privato’. Se il capo illuminato lo incontrano, può capitare di trovarsi in tempi rapidi già con grandi responsabilità e con nuovi problemi di conciliazione e tempi di lavoro espansi: ma non avevamo detto che nel pubblico si lavora meno?

Le belle sorprese

Eppure, le persone che ho incontrato erano contente. Forse il mio campione non è rappresentativo della popolazione (probabilmente i depressi non si imbarcano in un programma di formazione e, in ogni caso, al suo termine sono in genere più motivati). Ma forse è pur vero che il valore del lavoro pubblico è davvero un po’ da (ri)scoprire.

La cosa più evidente soprattutto per i professionisti con più anni di esperienza è la consapevolezza del privilegio e dell’onore di lavorare per l’interesse pubblico. L’avvocata penalista che può occuparsi occupa della ri-destinazione dei beni confiscati alla mafia o l’architetto che vede gli spazi pubblici rifiorire grazie al suo lavoro: due esempi di persone consapevoli di aver cambiato schema di gioco. E se da un lato sanno che le parcelle nel privato sono un’altra cosa, sono anche consapevoli che il tempo dell’inseguimento del cliente che paga sempre più tardi è finito. E anche questa è una conquista. E forse solo chi ha conosciuto l’effetto svalutante del sentirsi precario e incerto sul futuro, anche dopo tanti anni dall’ingresso nella professione, sa attribuire il giusto valore alla sicurezza dell’impiego.

Per altri, la scoperta più sorprendente è il lavoro come luogo di costruzione di relazioni sociali non conflittuali. Cosa impossibile nell’agenzia di comunicazione dove tutti erano in competizione con tutti, per un nuovo cliente, una promozione, la vicinanza al capo plenipotenziario. C’è chi scopre di avere capacità collaborative che non aveva mai esplorato prima. E che all’improvviso, al lunedì mattina, si sveglia più contento di incontrare i colleghi.

La crisi delle professioni, un’opportunità per la PA?

Due riflessioni alla fine di questi giorni di colloqui. I professionisti che abbandonano la professione e scelgono la PA non sono i meno bravi: sono quelli che non hanno lo studio di famiglia o che non hanno la copertura economica per reggere le incertezze crescenti del settore. Se da un lato il fenomeno è sintomo di un mercato delle professioni in crisi (e se fosse il privato che non sa valorizzare merito e competenza?) dall’altro – spero non suoni cinico – è una straordinaria opportunità per la PA, che può aver accesso ad un mercato di competenze altrimenti indisponibile: la sfida è saper raccontare che il pubblico impiego può essere una valida alternativa e, poi, saper valorizzare chi arriva dopo, ma già con un bel bagaglio.

La seconda riflessione è sui sistemi di selezione: i concorsi tradizionali sono nati per selezionare neolaureati. Ma oggi si entra nella PA a metà carriera. Occorre forse averlo in mente quando progettiamo un nuovo bando, valorizzando i titoli e l'esperienza, ma anche mettendo alla prova le capacità.

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