#ValorePubblico

Per quale Milano? Appunti sul tema dell’abitare

Venerdì ho avuto il piacere di partecipare ad una mattina di confronto e riflessione sul tema della casa promosso da Tempi, col supporto di Alessandro Maggioni, presidente di CCL, dal titolo “Per quale Milano?”

Di seguito i punti del mio contributo, integrati con qualcuno dei numerosi spunti offerti da alcuni degli altri relatori.

 

 

Nel dibattito sull’identità di Milano è rischiosa la contrapposizione tra due narrazioni alternative: Milano la città sfavillane, attrattiva, vincente, ricca, internazionale, contro l’altra Milano, la città escludente, iniqua, ghettizzante, razzista, insicura, violenta. Questa lettura antitetica è pericolosa perché si presta a due conclusioni entrambe controverse: da un lato “l’esclusione è il prezzo da pagare quando diventi città attrattiva” e dall’altro “allora buttiamo a mare l’attrattività e tutta la ricchezza che genera”. La crescita delle città porta con sé trasformazioni economiche e sociali anche profonde e talune possono esacerbare le iniquità o generarne di nuove: è compito delle politiche pubbliche intervenire non solo per redistribuire la ricchezza generata per una finalità di giustizia sociale, ma anche per evitare che l’emergere di nuove fratture sociali sempre più profonde metta a rischio il sistema città nel suo complesso e il suo stesso modello di sviluppo, un punto ripreso anche dall’assessore Guido Bardelli.

 

Quali le possibili linee di azione, dunque? Di seguito tre spunti per segnare nuove piste di lavoro attorno al tema della casa.

1. Da “Per quale Milano?” a “Per quali milanesi?”

Smettere di personalizzare la città e cominciare a mettere a tema le persone aiuta a focalizzare meglio gli interventi. Come ha detto Massimo Bricocoli nel suo intervento, ragionare in termini di ‘fabbisogno abitativo’ è fuorviante. Per questo concordo sia più utile ragionare di bisogni abitativi, che sono anche profondamente differenziati per gruppi di persone diverse.

Gli studenti hanno un bisogno di casa temporaneo, si muovono come singoli, possono beneficiare di soluzioni abitative che promuovono la condivisione di alcuni spazi e non hanno davvero bisogno di troppi servizi accessori, che rischiano di fare lievitare il costo dell’abitare. Il punto è stato ripreso anche dalla Rettrice Marina Brambilla, quando ha richiamato la priorità di tenere bassi i costi dell’abitare per gli studenti. Dall’altro lato abbiamo una popolazione di persone anziane sempre più sole, che forse non hanno più bisogno degli spazi di cui dispongono, ma certo sono destinate ad avere un crescente bisogno di servizi di supporto, che forse potrebbero ridurre i costi che oggi sono in capo al welfare, come l’assistenza domiciliare integrate. Chi a Milano invece viene per lavorare, ha bisogno di potersi insediare, radicare, di avere di fronte una prospettiva abitativa temporalmente meno vincolata. E, per chi arriva da più lontano, occorre anche avere la possibilità di integrarsi nel tessuto sociale, a partire dall’imparare la lingua, per evitare i rischi di emarginazione sociale. In altre parole,

la casa è sempre e solo un pezzo di un progetto di vita: pensare a politiche pubbliche capaci di rompere i silos dei comparti stagni in cui sono promosse e pensare alla casa come ad un vettore trasversale rende più efficaci gli interventi e promuove un uso integrato delle risorse pubbliche.

2. Cosa vuol dire promuovere un abitare inclusivo?

Nell’ambito di una ricerca europea stiamo lavorando alla messa a punto di un modello (di cui prossimamente parleremo di più) che si basa su quattro dimensioni che definiscono l’abitare inclusivo: abbordabilità, accessibilità, accettabilità e disponibilità (availability in inglese, da cui 4 A's Model).

Sull’abbordabilità il lavoro di OCA del DAStU ha messo a punto definizioni e misure e, pertanto, rimando a quelle. Ma l’inclusione non è solo un fatto di costi, riguarda anche la loro disponibilità: le case popolari sono abbordabili per definizione, ma lo stock non cresce più e il turnover è troppo basso. Fenomeni come gli affitti brevi stanno riducendo il numero di unità abitative destinate all’abitare e questo impatta sulla disponibilità complessiva. Una casa inclusiva è anche accessibile, non solo rispetto alle barriere architettoniche per chi è portatore di disabilità, ma anche rispetto alla sua localizzazione geografica: se le case abbordabili sono in luoghi poco connessi, privi di servizi e lontani dai siti produttivi si rischiano di allontanare le opportunità dell’abitare con quelle del lavorare e degli altri aspetti della vita delle persone (un punto ripreso anche da Alessandro Maggioni e da Piergiorgio Orsi nei loro interventi). Infine, la casa deve essere anche accettabile e appropriata rispetto alle esigenze di chi la abita, come si è già argomentato nel primo punto: forme di sovraoccupazione per le famiglie numerose o di sottoccupazione per gli anziani soli possono essere parimenti critiche sotto profili differenti. In sintesi, l’abitare inclusivo deve saper guardare a queste quattro dimensioni contemporaneamente. Il Piano casa del Comune di Milano raccontato da Bardelli, che prevede l’immissione di circa 10.000 nuovi alloggi tra Milano e aree limitrofe, ben connesse alla rete urbana, a canoni di 80 €/mq anno, sembra una risposta promettente nel modo in cui prova a tenere insieme le 4 A dell’abitare inclusivo.

3. Quale ruolo per l’edilizia residenziale pubblica?

Il ruolo dell’ERP è il tema che in questi anni in SDA Bocconi abbiamo approfondito di più (con un set di report di ricerca nel 2019, 2021, 2024). La sintesi più efficace dello stato dell’ERP l’ha offerta l’assessore regionale Paolo Franco, quando ha richiamato il progressivo slittamento dell’ERP da strumento di supporto alla crescita economica (le case per i lavoratori arrivati in città per partecipare allo sviluppo industriale) a strumento di welfare: oggi il 50% degli abitati delle case popolari dell’area milanese ha un ISEE inferiore a 9 mila euro. Se questo è lo stato delle cose, capire quale ruolo assegnare all’edilizia residenziale pubblica è tema urgente, ma anche controverso.

Come abbiamo scritto nelle conclusioni di un lavoro recente, occorre prendere atto del fatto che

l’ERP è oggi l’unico strumento di argine a forme di emarginazione estrema, offrendo – per quanto in misura insufficiente – soluzioni abitative per le fasce in condizioni di povertà. Privarsi di questo patrimonio significa rinunciare ad uno strumento di protezione sociale impossibile da ripristinare, una volta dismesso.

Allo stesso tempo, se le case costruite ieri per i lavoratori sono oggi abitate dai più emarginati, occorre anche capire quali risposte dare a due possibili esternalità negative di questo modello: la concentrazione delle forme di bisogno maggiore nei quartieri ERP con i rischi sociali conseguenti, da un lato, e la necessità di trovare fonti di finanziamento nuove per la gestione del patrimonio ERP e dei servizi collegati che certo non può fare affidamento sugli introiti di affitti quasi simbolici, dall’altro. La proposta di Regione Lombardia “svuotare le liste d’attesa da sotto”, ovvero destinare parte del patrimonio alla fascia ISEE che avrebbe diritto ad una casa popolare, ma rischia di restare sempre in coda perché appena meno povera, sembra una soluzione che aiuta a contrastare i due rischi enucleati. Infatti, come ha sottolineato anche l’On. Marco Osnato nel suo intervento successivo, occorre evitare che la capacità di risposta si concentri solo sul bisogno abitativo della cosiddetta fascia grigia, lasciando ad altri di fronteggiare il problema della ‘fascia nera’.

Il punto è centrale e merita maggiore riflessione: i modelli di housing più inclusivi e sostenibili sono quelli che usano le economie generate dalle fasce grigie (o “grigio perla”, se mi si consente la metafora) non già per ripagare l’investimento dei fondi immobiliari (forse altre fonti di finanziamento sono possibili) ma come fonte per i disavanzi fisiologici che emergono dalla gestione delle fasce nere, in un’ottica di mix di portafoglio.

 i modelli di housing più inclusivi e sostenibili sono quelli che usano le economie generate dalle fasce grigie (o “grigio perla”, se mi si consente la metafora) come fonte per i disavanzi fisiologici che emergono dalla gestione delle fasce nere, in un’ottica di mix di portafoglio.

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