#ValorePubblico

La (non) riforma della dirigenza pubblica

La reunion degli ex allievi EMMAP a celebrazione di 20 anni di master SDA Bocconi per la PA è stata un’occasione per riflettere su come è cambiata la dirigenza pubblica in questo tempo e quali i temi da mettere in agenda per i prossimi 20.

Di seguito una sintesi del contributo portato nella serata di apertura.

 

Sulla carta, la dirigenza pubblica in questi 20 anni di EMMAP non è cambiata granché. L’unica riforma organica è stata (provvidenzialmente) bocciata dalla Consulta. Al netto della solita litania su valutazione, performance e qualche pennellata ai sistemi di accesso, la dirigenza pubblica sembra rimasta uguale a se stessa negli anni.

 

Ma così non è.

 

Alcuni fenomeni globali hanno avuto un impatto radicale sul funzionamento delle istituzioni pubbliche e, quindi, sul mestiere della dirigenza. Tra questi, possiamo concentrarci su tre linee di trasformazione fondamentali.

1. L’impatto dell’economia fisarmonica

Gli anni dell’austerità che sono seguiti alla grave crisi finanziaria globale del 2008, nel nostro paese si sono tinti di tratti più foschi che altrove: il taglio alla spesa qualche volta ha portato anche maggiore efficienza, più sovente si è prodotto in una sostanziale riduzione del perimetro dell’intervento pubblico in ogni ambito dell’azione pubblica. A partire dalla riduzione del numero degli addetti, come già raccontato qualche anno fa qui.

Il fenomeno ha riguardato anche la dirigenza pubblica e negli enti ce ne siamo accorti perché l’età media è aumentata, rovesciando completamente la piramide anagrafica: i pochi innesti di giovani manager pubblici arrivano dentro strutture dove la classe dirigente è in larga misura a fine carriera, affatica e disillusa.

Negli enti locali la classe dirigente si è assottigliata (al punto da sparire, soprattutto nei comuni sotto i 30.000 abitanti): i comuni hanno fronteggiato la contrazione della spesa riducendo le posizioni dirigenziali, a vantaggio di una accresciuta responsabilità amministrativa sulle PO (oggi EQ), soggette ad una disciplina di incarichi a tempo.

Ma oltre ad un impatto sul numero delle teste, l’austerità ha dominato la cultura manageriale pubblica: il grande tema di questi anni è stato quello di “limare”, “contenere”, “ridimensionare”. Da un lato sono stati gli anni di sperimentazioni generative: le innovazioni sociali in collaborazione col terzo settore, lo sviluppo di nuove configurazioni finanziarie in partnership col privato, sono iniziative sorte per fare fronte ad una crisi di finanza pubblica che non lasciava scampo.

Dall’altro, a forza di tenere lo sguardo su come fronteggiare il quotidiano, cercando di tirare una coperta sempre troppo corta (e via via sempre più lisa), abbiamo disimparato a pensare a come investire sul futuro.  

Ma a una fase di austerità severa, ne è seguita una di espansione senza precedenti della spesa per le assunzioni e gli investimenti, con l’avvento del PNRR. E questo cambio improvviso di direzione ci ha trovati impreparati. Quando ci hanno dato in mano 200 miliardi di spesa abbiamo avuto – come classe dirigente tutta: politica, amministrativa, intellettuale – un misto di vertigine, smarrimento e bulimia. Oltre a tante opere necessarie e trasformative, abbiamo anche aperto cantieri senza progetto, come asili nido, case della salute o musei, senza sapere se e come potremo assumere educatori, infermieri o curatori per farli funzionare. Anche perché è già chiara l’inversione della congiuntura economica e il ritorno di politiche di contrazione della spesa…

Se c’è una cosa che questa storia ci ha insegnato è che il tratto contemporaneo del mestiere del management pubblico è la capacità di rispondere con prontezza alla discontinuità improvvisa del ciclo economico, cui forse dobbiamo abituarci: la dirigenza dei prossimi vent’anni occorre sia meglio preparata a modulare con la flessibilità di una fisarmonica i servizi e le politiche in modo meno reattivo e più proattivo.

2. L’impatto delle trasformazioni tecnologiche

Vengo brevemente alle tecnologie, scegliendo due temi dei mille che si potrebbero approfondire.

Le tecnologie hanno abilitato politiche di trasparenza e anti-corruzione prima semplicemente impossibili: se guardiamo gli indici internazionali, l’Italia ha moderatamente migliorato la sua posizione in questi anni (+12 punti dal 2012 al 2023 stando al Corruption Perceptions Index (CPI), pubblicato da Transparency International). Il problema è che la politica della casa di vetro, se da un lato ha irrobustito le difese dai rischi di corruzione, dall’altro non ha necessariamente migliorato l’immagine pubblica della PA e talvolta ha reso più fragile chi quella casa la popola: la classe dirigente di questi anni è anche più impaurita, sovente talmente ossessionata dal rischio di incorrere in giudizio da rischiare la paralisi. Questa non è stata direttamente una riforma della dirigenza, ma indirettamente è stata tra le misure a maggiore impatto sulle pratiche, sui comportamenti, sulle culture.

Ovviamente continua ad essere auspicabile che l’innovazione tecnologica consenta forme di controllo più efficienti, ma occorre anche riflettere sulle implicazioni culturali di tale fenomeno e di come evitare il rischio che diventi nelle pratiche – o nelle rappresentazioni – uno strumento persecutorio: la casa di vetro doveva servire a migliorare la fiducia tra cittadini e PA, non a distruggerla.

Il secondo tema legato alle tecnologie riguarda le nuove forme di organizzazione del lavoro: siamo passati dal ‘900 all’oggi nell’arco di una primavera nell’ormai dimenticato 2020. Dai tornelli al lavoro per obiettivi per colpa di un virus di 50 nanometri di diametro. Questo virus non solo ci ha sbattuto in faccia il ritardo tecnologico in cui versavano larghissima parte dei nostri enti, ma ci ha anche mostrato il ritardo culturale, manageriale e, soprattutto, di leadership. Ancora una volta, non è stata una riforma a cambiare la dirigenza, ma poche cose come lo smartworking ha sollevato riflessioni nuove attorno al tema di cosa vuol dire gestire le persone nella PA: in tanti hanno abbracciato questa opportunità e ne hanno fatto occasione di trasformazione organizzativa e rimessa in gioco del proprio approccio al lavoro. Altri sono rimasti spiazzati e disorientati, speranzosi di poter presto tornare a timbrature e orari fissi, per non mettere in discussione il proprio stile di leadership.  Che l’arrivo dell’intelligenza artificiale sia un altro grande banco di prova per il funzionamento organizzativo è ormai non solo una previsione, ma una realtà già in corso.

Alla dirigenza dei prossimi 20 anni serve più consapevolezza diffusa rispetto alle implicazioni organizzative e agli effetti sociali delle trasformazioni tecnologiche, che richiedono un accompagnamento paziente e determinato alle persone.  

3. L’impatto dei cambiamenti politici

I sistemi di costruzione e mantenimento del consenso politico attorno agli eletti stanno cambiando in maniera radicale, anche grazie (o a causa) dei due fenomeni citati prima (austerità e nuove tecnologie). Un aspetto cruciale di questa congiuntura che riguarda tutta la politica (dal livello globale a quello iper-locale), è la volatilità: abbiamo visto nascere esplodere e poi quasi sparire nuovi soggetti politici – e con essi la loro classe dirigente – con una velocità senza precedenti, talvolta anche all’interno degli stessi schieramenti. Questa politica con la data di scadenza ha una caratteristica rilevante per il mestiere del dirigente pubblico: non ha tempo di imparare.

Nel suo ultimo libro dal titolo programmatico “On leadership – L’arte di governare”, Tony Blair offre agli aspiranti o attuali politici lezioni che lui ha appreso sul campo non solo al n. 10 di Downing Street, ma nei successivi 17 anni come consulente dei capi di stato di mezzo pianeta. Una delle cose che ripete spesso è che non si arriva quasi mai preparati al compito. Lui stesso è approdato alla premiership perché si era preso il partito, senza nemmeno un giorno di esperienza da ministro. Ma se lui ha avuto 10 anni di governo ininterrotto, a nessuno dei suoi successori è capitato lo stesso privilegio (o ha avuto lo stesso merito). Se la politica non ha tempo di imparare, ma ha fretta di fare, la chiave della sua efficacia è nel rapporto che costruisce con la dirigenza. Mi si dirà che ci sono molti modi per la politica di costruire questa relazione. Vero. Blair offre preziosi consigli anche su questo. Ma ci sono molti modi anche per la dirigenza di mettersi a servizio di una classe politica che deve ancora elaborare le coordinate su come tradurre le sue visioni in azione amministrativa.

Se c’è una cosa di cui abbiamo parlato senza sosta in questi vent’anni è di come sia cambiata la politica.

Se c’è una cosa di cui non abbiamo parlato abbastanza è di come è cambiata la dirigenza in relazione a questa trasformazione, come sta cambiando la percezione di sé, l’identità e la postura di ruolo, se non in larga misura in chiave vittimistica.

Non c'è solo il cieco opportunismo o la sdegnata rigidità, come qualcuno pensa. C'è spazio per un modo non giudicante, ma competente, affidabile e consapevole, capace di interpretare un ruolo quasi pedagogico per abilitare anche la politica più inesperta, incerta e, talvolta, inconsapevole. Questo un punto da mettere nell’agenda di sviluppo della dirigenza pubblica dei prossimi 20 anni per assicurare il funzionamento democratico delle nostre istituzioni pubbliche.

In conclusione, la dirigenza in questi 20 anni di EMMEL + EMMAP sembra solo sulla carta rimasta la stessa. Il mondo intorno si è trasformato vertiginosamente e, quindi, anche ai manager della PA è stato chiesto di cambiare.

Servono arene qualificate per tenere aperta la riflessione, per coltivare questo dibattito, per allenare le nuove competenze in campo e anche per – perché no – supportare l’evoluzione dell’identità professionale della classe dirigente pubblica. EMMAP è una di questa e lo sarà anche nel futuro. 

 

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