
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
Fornisce le conoscenze e gli strumenti fondamentali per un effettivo esercizio della funzione di direzione della PA.
Cominciamo il quinto anno di #ValorePubblico con una riflessione sulla felicità come obiettivo di policy, grazie al suggerimento della collega Valeria Tozzi, che mi gira un link sul Leadership & Happiness Symposium organizzato dalla Kennedy School of Government di Harvard. Vediamo che cos’è. E perché c’entra col valore pubblico.
Arthur Brooks, professore di “Practice of Public Leadership” presso la Harvard Kennedy School, coltiva l'ambizioso obiettivo di avviare un movimento per la felicità. Utilizzando un approccio rigoroso basato sui dati, Brooks sta sviluppando l'Happiness Lab dove studiare in chiave interdisciplinare la scienza del benessere, da mettere a disposizione delle nuove generazioni di leader pubblici. La felicità, secondo Brooks, ha un ruolo significativo nella formazione executive per il settore pubblico. Le sue principali componenti - passione, soddisfazione e significato - costituiscono i principi fondamentali che possono risolvere molte questioni di politica pubblica: “Come possiamo contrastare l'epidemia di solitudine? Cosa sarebbe necessario per ridurre i decessi legati alla disperazione o il tasso di ideazione suicida nella società? Perché i social media rappresentano un rischio particolare per i nostri adolescenti? Come possiamo rafforzare le comunità? Come possono gli individui contribuire a mitigare la polarizzazione politica?” Secondo Brooks, la risposta a queste domande di policy va cercata nei fondamenti della felicità umana. Per questa ragione, a suo giudizio, questa nuova scienza deve essere insegnata nelle scuole di amministrazione pubblica:
la felicità non sarebbe, quindi, una mera condizione individuale, distribuita per lo più secondo i voleri di una sorte capricciosa, ma un obiettivo di policy che ha un valore pubblico.
A pensarci bene, non è poi una concettualizzazione così originale, posto che nella Dichiarazione di Indipendenza degli USA del 1775 si legge che il perseguimento della felicità è un diritto dei cittadini tutelato dalle istituzioni. In questo caso la felicità è intesa come condizione individuale. In Europa, pochi anni prima (1749) un’opera del Muratori – scritta in pieno spirito illuminista e destinata ad avere un’importante eco presso i sovrani europei che avevano abbracciato lo spirito riformista del tempo – si intitolava, appunto, Della Pubblica Felicità, dove l’autore si premurava di separare la felicità individuale da quella, appunto, pubblica. La prima può essere origine di controversie; la seconda, invece, deve diventare oggetto di interesse del sovrano illuminato. Per esemplificare cosa intende per felicità pubblica, l’autore prende a modello la descrizione biblica del Regno di Salomone, dove i regnati godevano equamente di benessere economico e di pace intesa come sicurezza e giustizia. Una concettualizzazione non poi così diversa da quella proposta oltre duecento anni dopo da un altro sovrano, Jigme Singye Wangchuck, 4° Re del Bhutan, che nel 1972 per la prima volta contrapponeva al PIL come misura di benessere il FIL, ovvero la Felicità Interna Lorda. Dal 2008 il FIL (descritto in termini di sviluppo socioeconomico sostenibile ed equo; conservazione dell'ambiente; conservazione e promozione della cultura; buon governo) è entrato nella costituzione del piccolo paese asiatico per orientare tutta l’azione pubblica. Nei quattro pilastri del FIL risuonano i principi della finanza responsabile espressi dal movimento ESG (Environment, Social issues, corporate Governance) che stanno riguardando sempre più i grandi investimenti privati: i principi ESG furono formulati per la prima volta nel 2004 in una dichiarazione congiunta tra ONU e istituzioni finanziare, che dava seguito alla strategia degli Obiettivi del Millennio (Millennium Development Goals o MDG), gli stessi che dal 2015 si sono evoluti negli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs). Dal Bhutan a Wall Street si osserva un cambio di passo quanto meno nel dibattito attorno ad una nuova concezione di benessere e, forse, anche di felicità pubblica.
Insomma, che i soldi non facciano la felicità non è più solo un luogo comune, ma una sorta di nuovo mantra che ha investito, quanto meno, tutto quel pezzo di mondo che i soldi li ha.
Manifestazione di questa discontinuità non è solo il successo della Responsabilità Sociale di Impresa e della finanza “with a purpose” che cerca di coniugare redditività e sostenibilità. A incarnare meglio lo spirito di questo tempo è la GenZ occidentale, ovvero la generazione dei nati dal 1997 al 2010. I ventenni di oggi tendono a tenere più in conto i valori del posto di lavoro rispetto alla competitività della retribuzione. Quasi incomprensibile per chi vent’anni li ha avuti negli anni ’80. Eppure la scienza dice che la felicità pare avere a che fare proprio col poter vivere in un contesto – anche professionale – dove ci si sente in sintonia sul piano dei valori: che la GenZ cerci con più pervicacia la felicità anche nel lavoro? Mentre le amministrazioni pubbliche faticano a usare il loro vantaggio competitivo come leva di attrazione e di gestione delle persone, nelle imprese più innovative nasce la figura del CHO, il Chief Happiness Officer: anni luce dalla concezione reificante di “risorsa umana”, i dipendenti sono sempre più concepiti come cliente da soddisfare, invece che come controparte di un conflitto irriducibile tra capitale e lavoro. A riguardo, il confine tra retorica e pratica è ancora tutto da scrivere.
Tornando alle politiche pubbliche della felicità viene da chiedersi se alla transizione da PIL a FIL corrisponda quella da “valore” a “valore pubblico”
dove il primo è definito da misure economiche, mentre il secondo richiede una concettualizzazione più ampia e include misure non economiche. Se si assume la prospettiva del valore pubblico, lo scopo delle politiche e dei servizi pubblici è quello di rispondere a bisogni sociali complessi, i cui benefici si osservano non solo sui destinatari diretti della misura, ma sulla società nel suo insieme, pur non essendo tecnicamente beni pubblici (come la salubrità dell’aria o la sicurezza). Lo è l’istruzione, di cui beneficiano non solo gli istruiti, ma la società intera (ad esempio, la stessa economia è positivamente influenzata dal livello di istruzione di un paese). Stesso dicasi, ad esempio, per la salute (fisica e mentale), l’occupazione, l’inclusione sociale, la mobilità, la fruizione culturale, … Il valore generato dai servizi pubblici collegati a questi obiettivi di policy non può certo essere incorniciato come valore di scambio, in assenza di prezzo di cessione, ma nemmeno solo come valore d’uso, in quanto perderemmo il beneficio che si distribuisce su tutta la collettività.
Chissà se essere più istruiti, più in salute, con un buon lavoro, ben connessi a tutti i servizi, integrati in un accogliente tessuto sociale ed esposti alla bellezza dell’arte e del paesaggio basta a sentirsi più felici. Forse no, ma sarebbe certo un buon contributo che il management pubblico potrebbe offrire alla felicità.