- Data inizio
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- 27 nov 2024
- 2 giorni
- Class
- Italiano
Il corso punta a potenziare le competenze manageriali e definire le logiche e gli strumenti fondamentali a supporto del cambiamento “agile” dei modelli organizzativi.
“Investire sul capitale umano” è il mantra della Riforma della Pubblica Amministrazione targata PNRR. Ma per investire sulle persone servono due cose: opportunità di carriera più chiare e meglio ancorate a percorsi professionali riconoscibili (come ha chiesto esplicitamente la Commissione Europea all’Italia), ma poi anche risorse, non solo per la formazione, ma anche per gli stipendi. Molti di questi snodi critici passano dai contratti collettivi nazionali, in discussione in queste settimane. In che modo i nuovi contratti porteranno il pubblico impiego fuori dallo stallo in cui è imbrigliato da tempo? Lo chiedo al Consigliere Antonio Naddeo, Presidente di ARAN, l’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni.
Raffaella Saporito: Presidente, per chi come me studia dall’esterno il funzionamento del lavoro pubblico, le raccomandazioni che l’Italia ha ricevuto da Bruxelles e da Parigi (mi riferisco al report dell’OCSE) sulla necessità di costruire nella PA percorsi di carriera più chiari e professionalizzati appaiono quasi ovvie, tanto sono necessarie. Un laureato che entra oggi nella PA da funzionario non solo guadagna all’ingresso cifre modeste, ma soprattutto non ha davanti a sé grandi margini di crescita, né professionali, né economici, se non immaginando di passare un altro concorso per i ruoli dirigenziali. Le recenti riforme – mi riferisco al DL 80 di questa estate – hanno introdotto alcuni ‘cunei’ che permettono di rendere più fluidi gli avanzamenti di carriera per chi fa bene nella posizione in cui è (e non solo per chi ha tempo di allenarsi a passare i concorsi nozionistici): penso alla riforma delle progressioni verticali e alle norme sull’accesso alla dirigenza. Ma un punto cruciale di quella riforma – la creazione di una nuova area a metà tra l’attuale funzionariato e la dirigenza – è in mano ai contratti. E sempre in mano ai contratti è la definizione del quantum stipendiale. A che punto siamo?
Antonio Naddeo: Non so se dipende tutto dai contratti. Ma su questo ci torniamo dopo. Intanto rispondo alla domanda. Il lessico con cui si articolano i percorsi di carriera nel pubblico impiego è definito dall’Ordinamento Professionale. Il nostro è vecchio di almeno vent’anni e stiamo lavorando per aggiornarlo. È proprio nell’ambito di questa riforma che si innesta la costituzione della c.d. “quarta area” o area delle “elevate professionalità” che la norma prevede che sia inserita appena sotto la dirigenza. Questo è uno strumento importante per agire sui percorsi di carriera evitando che l’unico sbocco possibile per i funzionari oggi in terza area o equivalenti sia solo la dirigenza. Le cose da regolare sono ovviamente chi ha diritto di accedervi e chi la finanzia. È evidente che essendo un’area di elevata professionalità un gradino superiore a quella dei laureati (terza area) tra i criteri per l’accesso è auspicabile vi siano ad esempio dei titoli professionalizzanti: penso agli architetti, ingegneri, avvocati, psicologi, ma anche esperti di project management, di comunicazione e di tutti gli altri ambiti di specialità, certificati da titoli di studio, coerenti con le missioni degli enti. Sul secondo punto, invece, si è stabilito che questa area si finanzia con la capacità assunzionale degli enti. In altre parole, agli enti la libertà di decidere l’ampiezza di questa area, in base alla rimodulazione del numero di dirigenti e di funzionari in terza area.
RS: In partica, si libera spazio per fare la quarta area se si ridefiniscono i modelli organizzativi. Per le sedi centrali delle amministrazioni statali, ma non solo, mi sembra un’opportunità per ridurre la frammentazione organizzativa che caratterizza oggi le strutture, figlia anche della proliferazione delle posizioni dirigenziali, unico sbocco di carriera di un funzionariato progressivamente più qualificato. Inoltre, oggi il gap economico tra l’ultimo gradino della terza area o categoria D e il primo della dirigenza è incomprensibilmente e ingiustificatamente enorme. Questo gap ha aumentato ancor di più la pressione inflattiva sulla dirigenza. Quanto sarà pagata, quindi, una Elevata Professionalità?
AN: Quanto ancora non posso dirlo, perché i contratti non sono chiusi. Mi aspetto che si trovi più o meno a metà strada tra terza area e dirigenza. Posso dire però come penso che dovrebbe essere pagata questa area: una componente tabellare, una componente di posizione (graduata secondo le politiche di ogni ente) e una componente di risultato, per dare maggiore flessibilità anche alla dinamica retributiva in questa area.
RS: Messa così, non rischia di sovrapporsi alle attuali Posizioni Organizzative, largamente in uso in Regioni, Enti Locali e comparto sanità? O questi comparti sono fuori dalla riforma, perché le categorie sono già quattro?
AN: Non sono fuori, perché le norma si estende a tutti. Piuttosto, in questi comparti si può pensare di mantenere le quattro aree fondendo le prime due categorie, A e B, che hanno sempre meno senso in una PA moderna. E no, non si sovrappongono alle PO, per due ragioni: la prima è che la PO è un incarico a scadenza, che può essere rinnovato, oppure no, mentre l’EP è a tempo indeterminato; la seconda è che la PO – quando è usata bene – coincide con una responsabilità gestionale, che non è richiesta per entrare nell’area EP. Infatti, in alcuni enti la PO è stata data anche senza veri incarichi gestionali, ma solo per valorizzare i più meritevoli sul piano economico. Ecco questa funzione ora sarebbe assolta dalla nuova area. Certo, mi immagino che le EP con in più un incarico da PO possano avere una graduazione della posizione commisurata.
RS: A proposito di innovazioni dei modelli organizzativi, i contratti disciplinano anche lo smart-working. Su questo tema il dibattito è stato molto acceso, spesso un po’ polarizzato attorno alle tifoserie dei sostenitori, da un lato, e dei detrattori, dall’altro. L’impressione che ho avuto, da osservatrice e studiosa esterna, è che non ci fosse spazio per discorsi più articolati. Ad esempio, penso che le potenzialità del lavoro agile siano molto ampie per molti mestieri ed ambiti delle nostre amministrazioni pubbliche, se si rivedono i modelli organizzativi, le competenze, le culture e le dotazioni tecnologiche. Ma anche in presenza di queste condizioni, bisogna anche dirsi che non tutti i lavori hanno le caratteristiche di alto grado di autonomia e basso grado di interdipendenza da poter essere ‘liberate’ dai vincoli della supervisione diretta o dall’orario di lavoro. È troppo complicato inserire questi distinguo?
AN: Non lo è affatto e mi permetto di dire che a riguardo i sindacati sono molto più avanti di tanti ‘opinionisti esperti’. Ad esempio, la scelta di aggiornare la disciplina del lavoro da remoto o telelavoro, oggetto di un accordo quadro più vecchio di 20 anni, da affiancare al lavoro agile, disciplinato dalla L. 81/2017, è un modo per ampliare le soluzioni organizzative in funzione di vincoli di contesto differenti. Laddove le forme di lavoro smart incontrano ostacoli come quelli appena esposti, non è detto che non si possano prevedere forme di telelavoro.
RS: Chiarissimo, grazie.
AN: Prego. Però volevo precisare solo una cosa, tornando un attimo all’inizio di questa chiacchierata. Lei prima diceva che è tutto in mano ai contratti. Questa cosa va precisata meglio. I contratti sono una cornice, abilitano o impediscono, ma non agiscono. A fare vivere i contratti sono poi le scelte che si fanno a livello decentrato. L’autonomia aziendale resta ampia e importante. Lì si giocherà un passaggio cruciale della partita del pubblico impiego. Lo dico non per togliere responsabilità al ruolo della contrattazione collettiva nazionale, ma per dire agli enti: “Non fatevi trovare impreparati!”