#ValorePubblico

A proposito di valore pubblico, in teoria e in pratica

Sovente il dibattito dell’accademia prende derive che finiscono con il perdere di vista quello della pratica. E, invece, molti degli scambi avuti durante l’ultima edizione della Conferenza dell’International Research Society for Public Management (IRSPM) a Tampere, Finlandia, mi sono sembrati non solo intellettualmente molto stimolanti, ma anche ricchi di spunti di ispirazione per i manager pubblici. Eccone alcuni, nati dalle ricerche che conosco meglio, perché coinvolta direttamente.

Un primo apprendimento valido per tutti, ricercatori e manager, è che una definizione consolidata di valore pubblico ancora non c’è. Né scale o misure riconosciute.

Per quanto ormai la creazione di valore nei servizi pubblici sia tema di grande attualità nel dibattito accademico e in quello della pratica, con una ricerca presentata dalla collega Eleonora Perobelli e realizzata con Maria Cucciniello abbiamo mostrato che è un campo ancora pieno di aree poco indagate. Ci piace pensare che il valore generato nei servizi pubblici si dispieghi per la società intera, ma quanto questo pensiero è un auspicio o un’evidenza scientifica? La maggior parte delle ricerche consultate si concentrano sul valore generato per gli utenti dei servizi o i cittadini direttamente coinvolti, mentre sono davvero pochi gli studi che hanno direttamente affrontato la creazione di valore per la collettività, al di là dei beneficiari diretti. Inoltre, è un campo dominato dalla ricerca qualitativa e le misure sono ancora poche. Questa evidenza dovrebbe portarci ad avere uno sguardo di maggiore indulgenza verso le difficoltà che incontrano quelle amministrazioni che hanno preso sul serio – partendo dal PIAO – la richiesta di provare a monitorare gli impatti esterni dei propri servizi: la sfida non è solo metodologica, ma forse anche un po’ concettuale, e un’alleanza tra comunità di pratica ed accademica può far fare passi avanti notevoli non solo alla ricerca, ma anche al management.

Il secondo è che al centro del processo di creazione di valore nei servizi pubblici ci sono le relazioni.

Nell’ambito di un’altra ricerca presentata a Tampere e realizzata sempre con Perobelli e Cucciniello abbiamo dimostrato che a fare la differenza nei servizi pubblici è la qualità della relazione tra operatori e utenti. Sembra una cosa ovvia, ma lo è meno di quanto si pensi: oggi il paradigma dominante è quello della disintermediazione dei servizi, grazie alle nuove tecnologie che consento all’utenza di scambiare informazioni, ma anche effettuare pagamenti e ricevere le risposte desiderate navigando tra piattaforme e altri sportelli digitali, riducendo al minimo lo scambio diretto con un operatore. Il nostro studio, realizzato nell’ambito dei servizi abitativi pubblici e sociali a Milano che si rivolgono a utenti con profili di fragilità, mostra che è nella relazione con gli operatori che si trova risposta ai propri bisogni e si genera valore per sé e per la qualità dell’esperienza abitativa condivisa. La disintermediazione consentita dalla tecnologia (su cui ha investito larga parte del nostro sistema di welfare) porta con sé indiscutibili vantaggi per l’utenza e per il provider del servizio, ma occorre imparare a chiedersi anche cosa lascia per strada. Osservare quanto le relazioni di prossimità tra utenti fragili e operatori qualificati possano fare la differenza in servizi che non nascono con una esplicita vocazione di welfare, eppure hanno una dimensione sociale, richiede di ripensare ai concetti di efficienza e di valore generato.

Il terzo è che i servizi pubblici non sono mai uguali per tutti perché le persone sono diverse.

La letteratura è chiara nel prescrivere di disegnare i servizi insieme all’utenza al fine di conoscerne meglio i bisogni e assicurare il più alto orientamento alle specificità delle singole categorie di beneficiari. Eppure, anche quando il servizio è ben disegnato e gestito, questo ha un impatto diverso sulla base di alcune differenze individuali che emergono in corso d’opera. Con Giovanni Fosti, Simone Manfredi e gli strumenti di statistica che vengono dall’epidemiologia portati da Elisabetta Listorti, abbiamo osservato come un servizio pubblico che sulla base delle evidenze può essere considerato di successo, come quello dell’accoglienza diffusa dei profughi ucraini coordinato dal Dipartimento della Protezione Civile, produce un valore individuale che varia al variare di alcune caratteristiche dell’utenza. Ad esempio, un cattivo stato di salute fisica o psicologica è un fattore che riduce la probabilità di avere un’esperienza di accoglienza positiva, anche un po’ a prescindere dalla qualità delle risposte abitative offerte: le liste d’attesa e altre difficoltà incontrate nel contatto coi servizi sanitari sembrano generare una sorta di effetto alone su tutto il resto. Oppure è interessante notare che la probabilità di accedere a servizi pubblici diversi (sanitari, scolastici, di inserimento professionale) aumenta non già al variare del bisogno (stato di salute, presenza di bambini, età), quanto in base alla presenza di alcune risorse individuali che ne facilitano l’accesso, come una conoscenza anche basica dell’italiano e un’istruzione più avanzata. Sono ricerche ancora in corso e il dibattito è aperto. 

E oltre ad avere feedback da parte della comunità dei colleghi ricercatori, sarebbe interessante avere anche quelli di chi i servizi pubblici li gestisce.

Tornata da Tampere penso che servirebbe una conferenza internazionale ibrida, dove accademia e mondo della pratica possano incontrarsi, scambiarsi esperienze e prospettive, consapevoli che non c’è ricerca solida senza l’accesso ai dati della pratica, né pratica efficace, senza l’osservazione terza della ricerca.

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