Sotto la lente

Ripensare la collaborazione pubblico-privato nel procurement sanitario

La crisi da Covid-19 ha messo in luce la grande difficoltà di molti Paesi nell’approvvigionamento di strumentazioni sanitarie indispensabili al contrasto del virus, come ventilatori polmonari e dispositivi di protezione individuale, le cui catene di fornitura globali sono state interrotte inizialmente dal blocco produttivo della Cina e successivamente da un’impennata della domanda da parte di tutti i Paesi colpiti dalla pandemia. Nel pieno di questa emergenza, tutte le autorità nazionali sono entrate in competizione tra loro per mantenere operativi i propri sistemi sanitari e garantire adeguata assistenza ai propri cittadini.

 

In molti Paesi, ben prima dello scoppio pandemia, i budget della sanità erano sotto stress, e questo ha imposto alle autorità il difficile compito di contenere i costi evitando al contempo tagli alla fornitura dei servizi. In tal senso, alcuni sistemi sanitari hanno preso provvedimenti in materia di approvvigionamento per tenere sotto controllo i prezzi delle attrezzature mediche e tecnologiche e dei farmaci. Tra questi, spiccano quello italiano e britannico in cui si è attuata una politica forte di centralizzazione degli acquisti attraverso la creazione di centrali di committenza sia a livello nazionale (come il NHS Supply Chain in Inghilterra o il Consip in Italia) sia regionale (nel caso italiano). In virtù del loro potere d’acquisto, questi soggetti avrebbero potuto essere più preparati per garantire la continuità delle forniture in caso di emergenza, quale elemento cruciale per assicurare la resilienza del servizio sanitario e della comunità.

 

Nel contesto italiano, sebbene la centralizzazione degli acquisti abbia aiutato a ridurre il problema della frammentazione della domanda e il management delle centrali di committenza abbia dato prova di una grande capacità nel trovare risposte a una emergenza di portata globale, e questo nonostante gli investimenti in competenze siano stati sempre scarsi se non assenti, emergono due problemi.

 

Il primo problema riguarda il coordinamento. In un contesto come quello attuale sarebbe stato auspicabile fin dall’inizio un maggior coordinamento centro-territorio. Da un lato si sarebbero dovuti individuare attori di riferimento (champion), regionali o nazionali, chiamati a gestire gli approvvigionamenti per determinati prodotti mediante accordi globali con operatori di mercato qualificati. Un’operazione, questa, da svolgersi tramite il Ministero degli Affari Esteri o istituzioni come la Croce Rossa, entrambi in grado di muoversi attraverso una rete istituzionale e di mercato globale. Dall’altro si sarebbe potuta utilizzare la rete territoriale degli acquisti per stimolare anche le piccole realtà locali nel sopperire agli eventuali gap nelle forniture.

 

La ricerca di un maggior coordinamento nella gestione del fenomeno Covid-19, al di là del ruolo della Protezione Civile e del Commissario straordinario, appare chiara con il recente dl liquidità. L’art. 42 contiene infatti la decisione del Ministero della Sanità di nominare a capo di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) un commissario con il compito di vigilare e supportare le Regioni nell’attuazione delle direttive del governo. La scelta di nominare commissari per far fronte a situazioni complesse non è nuova in Italia, ed è la strada spesso scelta per assicurare rapidità di risposta in contesti caratterizzati da elevata frammentazione, sia di attori sia di regole. Tuttavia, la reale capacità di far fronte all’emergenza dipenderà non tanto dalla creazione di nuovi «centri di coordinamento», quanto dalle capacità manageriali e di leadership del commissario designato, fondate sulla comprovata esperienza e conoscenza del sistema sanitario. Nel caso specifico, fortunatamente, la scelta di nominare Domenico Mantoan va in questa direzione, essendo uno dei manager più capaci dell’intero settore.

 

Il secondo problema ha a che fare con la governance degli acquisti centralizzati, da sempre considerata uno strumento di spending review e di contrasto alla corruzione. Troppo spesso questo approccio ha portato a svilire la funzione strategica degli approvvigionamenti, incoraggiando l’adozione di logiche burocratiche volte al rispetto formale delle norme e trasformandosi di fatto in un sistema sovrabbondante di controlli che penalizza l’assunzione di responsabilità e scoraggia l’innovazione. Si è persa dunque l’opportunità di avviare forme di procurement strategico, basate su una più stretta collaborazione pubblico-privato, che avrebbero potuto sostenere, per esempio, lo sviluppo di una filiera nazionale del biomedicale, che avrebbe consentito una più rapida risposta allo shock globale degli approvvigionamenti.

 

Nonostante questo, l’emergenza che stiamo vivendo ha ancora una volta messo in luce l’incredibile creatività imprenditoriale italiana, che ha saputo non solo rispondere in modo rapido ai problemi di approvvigionamento di materiale sanitario, ma anche individuare innovazioni incrementali, come nel caso dell’Intersurgical di Mirandola, azienda della provincia di Modena, che ha prodotto un doppio ventilatore polmonare in grado di supportare contemporaneamente due pazienti con lo stesso sistema. L’idea è nata da due medici i cui reparti ospedalieri erano fortemente minacciati dal virus. L’emergenza ha nei fatti portato alla creazione di partnership di breve termine, con il mercato e con centri di ricerca universitari, che sono tipiche risposte a situazioni di grande crisi.

 

L’emergenza Covid-19 e le pressioni esercitate sulla catena di approvvigionamento e di fornitura ci permettono di riflettere sul sistema di approvvigionamento della sanità pubblica, delineando alcune traiettorie di sviluppo che dovranno necessariamente essere prese in seria considerazione, in Italia e non solo, da parte dei policy maker. Questa, peraltro, è la direzione già presa dalle Direttive Comunitarie del 2014, e quindi non è richiesto alcuno sforzo normativo, bensì l’adozione di soluzioni concrete.

 

L’auspicio è che questa emergenza possa aprire la strada a un public procurement 2.0, in cui i tempi di aggiudicazione siano più rapidi (oggi, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio MASAN del Cergas di SDA Bocconi School of Management, possono servire fino a tre anni per aggiudicare un contratto dal momento in cui si avvia la progettazione della gara). Si spera inoltre che si sappia meglio interiorizzare la dimensione del rischio nei capitolati di gara e nei criteri di valutazione delle offerte, sia sul piano tecnico sia economico, che si introducano sistemi sofisticati di qualificazione dei fornitori e che si avviino progettualità innovative basate sulla collaborazione pubblico-privata.

 

Le soluzioni che si sono dimostrate più efficaci durante i primi due mesi di emergenza sono nate attraverso la collaborazione, il confronto e la creazione di una rete tra pubblico e privato, che speriamo possano essere forieri di un maggior trust tra gli attori del sistema. Da questo, infatti, dipenderà la reale capacità di passare da un procurement ordinario a un procurement strategico. A tal fine serviranno sostanziali investimenti nel management pubblico coinvolto nei processi di procurement e un sistema di regole che sostenga l’assunzione ponderata del rischio (perché senza rischio non c’è innovazione). Questo servirà per dialogare in modo più costruttivo con il mercato, per co-progettare e per creare contratti in grado di incentivare una maggior creazione di valore per la collettività. Sempre di più sono infatti gli investitori di lungo termine che premiano la creazione di valore non solo finanziario. Una prospettiva che dovrebbe essere assunta in primis anche dai policy maker, adottando un approccio più olistico e considerando il procurement come reale politica di sviluppo economico e sociale e non solo come un centro di costo.

 

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