#ValorePubblico

Modello Genova? Leadership e Project Management

Perchè un'intervista col Sindaco Bucci sul Caso Genova

Il 14 agosto 2018 alle 11.36 crolla nel cuore di Genova il Ponte Morandi e sotto le macerie perdono la vita 43 persone. Questo evento rappresenta uno dei disastri infrastrutturali più drammatici per il nostro Paese, che ha acceso i riflettori su tante zone d’ombra: dallo stato delle nostre infrastrutture al disastro regolatorio connesso alla manutenzione e gestione della rete infrastrutturale, ovvero l’inadeguatezza dei sistemi decisionali, contrattuali e di monitoraggio utilizzati per assicurarne la sicura ed efficiente fruibilità.

Se il 14 agosto 2018 ha segnato un giorno di vergogna per tutti, il 3 agosto del 2020 è stato invece un giorno di riscatto e speranza, con la cerimonia di inaugurazione del nuovo Ponte San Giorgio. La ricostruzione in tempi record del ponte di Genova è un esempio di straordinaria capacità di gestione dell’emergenza da parte della macchina amministrativa pubblica, guidata da un Commissario che è stato identificato nella persona del Sindaco della città, Marco Bucci, che si è avvalso di una struttura ibrida, il cui modello organizzativo mostra aspetti di grande interesse. Un caso, quindi, che presenta spunti di importante attualità e utilità su cui riflettere in un periodo in cui l’Italia ha la necessità di dispiegare in tempi rapidi e con un forte orientamento al risultato le risorse di Next Generation Europe e della nuova politica di coesione. Ne abbiamo parlato con Marco Bucci, eletto a giugno del 2017 Sindaco della città di Genova, che ha assunto l’incarico di Commissario Straordinario.

Bucci ha un profilo insolito, non ha alle spalle il classico cursus honorum della politica: è un manager italiano con una lunga esperienza internazionale, prevalentemente negli Stati Uniti, alla guida di grandi aziende nel settore della chimica e farmaceutica. Tornato in Italia, dopo una breve esperienza come AD di Liguria Digitale, decide di mettere al servizio della sua città le capacità manageriali e di leadership sviluppate in settori ad alto contenuto tecnologico per guidare il necessario cambiamento in una città complessa, socialmente ed economicamente provata come Genova. Dopo un anno dall’insediamento, si trova a guidare Genova fuori da una delle più gravi crisi della sua storia e della storia del Paese dal dopoguerra. Gli esiti sono incontrovertibili: nel giro di due anni è stato ricostruito un nuovo ponte. Un record per il nostro Paese. Quale è stato l’ingrediente segreto? I poteri commissariali aiutano, ma non bastano, come dimostrano altre esperienze commissariali in altri contesti di ricostruzione. Esiste un “Modello Genova”? Quali sono i fattori critici di successo? Quali apprendimenti si possono generalizzare da questa esperienza? Ma per rispondere a queste domande occorre partire dall’inizio.

Un caso, quindi, che presenta spunti di importante attualità e utilità su cui riflettere in un periodo in cui l’Italia ha la necessità di dispiegare in tempi rapidi e con un forte orientamento al risultato le risorse di Next Generation Europe e della nuova politica di coesione.

Modello Genova? Leadership e Project Management | SDA Bocconi

Due anni per rifare il ponte: come si fa?

SDA Bocconi: Sindaco, partiamo dalla ferita, dal 14 agosto 2018. Dal momento del disastro al momento in cui è stato nominato Commissario, che cosa ha fatto e che cos’è che l’ha convinta che assumere il ruolo di Commissario fosse la scelta da fare?

Bucci: Dalle 11:36, quando ho ricevuto la telefonata, sino alle 12:30 c’è stato il panico più totale. Alle 12:03 ho convocato il Centro Operativo Comunale, lo strumento di coordinamento delle risposte in casi di emergenze di protezione civile. All’inizio abbiamo cercato di capire cosa fosse successo, le immagini non erano chiare, c’erano nebbia e pioggia forte. Nel frattempo si è attivata la macchina dei soccorsi: vigili del fuoco, ambulanze, protezione civile. Alle 12:30 si è cominciato a capire. Alle 14:30 è stata convocata la conferenza stampa. Il Sindaco deve pensare a tutta la città e non solo alle vittime della tragedia: per loro c’erano ovviamente tutti i soccorsi possibili. Bisognava spiegare alla città cosa stava succedendo e come ci stavamo attrezzando per permettere a tutto il resto di continuare a funzionare. Con questo spirito, l’indomani, ho telefonato a Renzo Piano e lui ha cominciato a pensare al nuovo ponte. Nelle tre settimane successive abbiamo fatto tre cose urgenti. Dare a tutti gli sfollati una abitazione e dopo circa una settimana dal crollo tutti avevano una casa. Abbiamo usato gli alloggi sociali, quelli delle forze armate e poi c’è stata anche molta solidarietà da parte dei cittadini. La protezione civile ha organizzato la logistica. La seconda è stata pensare alla mobilità. I pezzi del ponte non crollati interferivano con quattro strade principali della Valpocevera e tre coppie di binari. Pertanto, tutto il traffico ferroviario e stradale che passava dall’area del ponte era bloccato. È quindi iniziata la progettazione della nuova strada, “la Superba”, attraverso il porto, e tre settimane dopo veniva aperta. Poi sono state adeguate strade di prossimità per facilitare il traffico. La terza è stata mettere in sicurezza l’area, la parte del ponte rimasta in piedi poteva crollare da un momento all’altro e costituiva un pericolo. Un’ultima cosa, non caratterizzata dall’urgenza, ma certamente molto importante è stata l’organizzazione dei funerali, assieme all’assistenza e gestione dei parenti delle vittime, alcune di queste straniere. Anche di questo un Sindaco di deve occupare.

Queste tre attività hanno impegnato il Comune sino a fine settembre, 45 giorni dal crollo del ponte.

Nel frattempo, Renzo Piano e ASPI hanno portato avanti il progetto e i primi giorni di settembre Regione, Comune e ASPI hanno proposto il progetto del Ponte firmato da Piano ed eravamo pronti a partire. Il giorno dopo arriva il no del Governo.

SDA Bocconi: Sindaco, cosa significa per una città avere una grave ferita non solo simbolica, ma anche logistica? Ci aiuta a comprendere il senso di questa urgenza?

Bucci: Abbiamo stimato, con il supporto di una società di consulenza, che ogni giorno senza ponte sarebbe costato alla città sei milioni di euro. I sei milioni sono stati calcolati considerando il maggiore tempo di percorrenza sottratto soprattutto all’attività di impresa, i maggiori consumi di carburante, smog e inquinamento. Questa quantificazione mi è servita molto nei mesi successivi per contrastare e sollecitare tutti gli attori che in qualche modo ponevano freni e barriere alla necessità di procedere rapidamente con le decisioni e quindi con il cantiere. A questi mettevo in evidenza come ogni giorno perso costava alla città sei milioni di euro.

SDA Bocconi: C’era il progetto, ma non l’accordo del governo. Poi cosa è successo?

Bucci: Il Governo ha inizialmente stoppato il progetto Piano perché stavano ancora valutando il ruolo di ASPI nella ricostruzione. Intanto, a fine settembre venne approvato il primo decreto Genova che indicava che il Commissario avrebbe dovuto applicare direttamente la Direttiva Europea sugli Appalti. Poi, il 29 settembre ho ricevuto una telefonata dal Presidente del Consiglio, che mi chiese se fossi disponibile fare il Commissario. Ho detto sì in 30 secondi! Con che faccia il Sindaco avrebbe incontrato i cittadini se avesse detto “no, non voglio fare il Commissario per la ricostruzione del ponte”? Non ci sarebbe stato alcun argomento valido per giustificare ai cittadini genovesi la rinuncia a prendersi una responsabilità di questo tipo. Qualcuno potrebbe pensare che siano due impegni importanti, e forse inconciliabili: il Sindaco è una cosa, il Commissario è un’altra. Ci sono “centomila argomenti” a favore dell’incompatibilità, ma c’è un argomento fondamentale, che spiega che la scelta è quella giusta, ovvero metterci la faccia, perché questo è ciò che un Sindaco deve fare per la propria città. Il Sindaco conosce l’amministrazione e i cittadini e ogni giorno, quado esce di casa, si confronta con loro e deve dare risposte, perché altrimenti perde la faccia. Come dicono gli anglosassoni, “we need skin in the game”, bisogna giocare con la propria pelle, bisogna metterci la faccia!.

SDA Bocconi: Questo è un punto interessante. In altre situazioni si è deciso di affidare la guida di progetti critici a figure esterne all’amministrazione; il suo ragionamento è invece diverso.

Bucci: Credo che la vicinanza al territorio e ai cittadini sia essenziale nella scelta delle figure a cui affidare la guida di progetti strategici. Possiamo usare la metafora del breakfast americano, scrambled eggs & bacon, per spiegare la differenza tra coinvolgimento (involvement) e metterci la faccia (commitment). Chicken is involved, pork is committed. Cosa vuol dire questo? Che un Commissario esterno può impegnarsi, ma poi al termine del suo lavoro prende un altro incarico; chi è veramente committed è quello che è sul posto. Il sindaco ci mette la sua faccia e non può dire “ci vogliono sei anni anziché due”.

SDA Bocconi: Sebbene sulla stampa circolasse il suo nome come possibile Commissario già a settembre, la sua nomina venne ufficializzata con il DPCM del 4 ottobre 2018, a cui hanno fatto seguito due proroghe di un anno, il 30 settembre 2019 e il 3 ottobre 2020. Come si organizza?

Sindaco: Sì, io vengo nominato il 4 ottobre, ma il Decreto doveva ancora essere convertito in legge ed è la legge che stabilisce le risorse di cui dispone la struttura commissariale, il team, e quali poteri ha il Commissario. Io comunque comincio già a creare il team e a preparare i primi decreti commissariali e a impostare tutto il lavoro. La conversione avviene il 16 novembre e quello stesso giorno sono pubblicati i decreti del commissario ad acta (DCA), in modo tale che si potesse procedere con le procedure di gara. La città, nel frattempo, perdeva 6 milioni di euro al giorno.

SDA Bocconi: Come ha selezionato la squadra? Con quale approccio?

Sindaco: L’approccio che ho usato è quello che ho imparato facendo il manager.

SDA Bocconi: Ok, ha fatto il manager in America, ma non sono tanti i manager che si sono trovati a gestire un ponte crollato nel cuore di una città, schiacciata tra il mare e le montagne, e l’urgenza di ricostruirlo velocemente. E per di più dentro i vincoli dei poteri commissariali, che non sono così trascurabili. L’esperienza che lei ha gestito è abbastanza extra-ordinary per qualunque sindaco, a prescindere dal suo background.

Sindaco: Sono d’accordo però cerchiamo di dire le cose come stanno. Le cose eccezionali sono fatte da persone normali. È necessario avere delle persone che sanno lavorare nelle situazioni difficili. Quando hai un business da un miliardo e mezzo di dollari e all’improvviso scoppia il prime rate crisis nel 2007 e vedi che le vendite si azzerano per un mese, questa è crisi, eccome. Si chiama crisis management. Questa è esattamente la stessa cosa. Bisogna essere pronti…un ufficiale di marina, un comandante di una nave, deve sapere come si affronta un problema su una nave, invece di dire “si salvi chi può”. Esagero un po’, ma bisogna capire queste cose. Poi è chiaro, un Sindaco quando è eletto non fa scuola di crisis management. E questo secondo me è un problema; servono competenze forti, di management, quando si amministra un ente pubblico. Quando si creano i team, quando si approccia una crisi, o si fa gestione di progetti. Prima di tutto bisogna circondarsi delle persone che sanno coprire i buchi dei singoli. Il capo deve capire i suoi difetti, saperli bene e farsi consigliare da chi è in grado di fare le cose. L’importanza del team l’ho imparata da giovane, quando facevo il ricercatore. In quattro anni ho fatto circa venticinque brevetti, un lavoro eccezionale. Dopo quattro anni il mio capo viene da me e mi dice “Tu sei bravissimo, tu sai lavorare per quattro persone. Però ricordati che io ne assumo cinque e ti frego. Ora devi imparare a lavorare con gli altri.” Questa frase mi è rimasta impressa per la vita.

SDA Bocconi: Molto spesso in questo Paese c’è la tendenza a nominare come Commissari figure di tipo giuridico-amministrativo. Quindi questo in qualche modo può rappresentare un problema nella misura in cui una complessità come la ricostruzione del ponte è stata gestita con un mix di leadership e project management.

Sindaco: La scelta a chi affidare compiti complessi deve tener conto del committment, capacità di fare squadra e capacità di project management.

SDA Bocconi: Torniamo al 4 ottobre quando si insedia come Commissario. Sarebbe passato oltre un mese per la conversione in legge del decreto, ma Lei non ha aspettato questo tempo per creare la squadra.

Bucci: Come dicevo, ho preso le competenze che non avevo. Ho nominato due subcomissari, uno è un ex Magistrato della Corte dei Conti e uno un manager con esperienza di quarant’anni alla guida di aziende pubbliche; poi un Avvocato dello Stato, un Procuratore capo in pensione, poi ovviamente anche i tecnici, molti dei quali individuati all’interno del Comune. La prima cosa da fare era la “manifestazione di interesse” seguendo l’art. 32 della Direttiva 24/2014/EU. Questa è stata l’unica deroga di cui abbiamo beneficiato. Tutti pensano che abbiamo lavorato con “100mila” deroghe, invece no, questa è stata l’unica e prevede che si possa fare una comunicazione diretta con le aziende. Abbiamo ricevuto venti offerte; quindi abbiamo costituito una commissione che ha svolto la selezione e alla fine abbiamo scelto.

SDA Bocconi: Dalla telefonata di Conte [29 settembre] al giorno della sua nomina [4 ottobre] lei aveva già identificato la squadra?

Bucci: All’80% sì, la squadra era identificata; la nomina dei subcommissari è avvenuta il 13 novembre. Il giorno dopo sono stati pubblicati i primi tre decreti; abbiamo guadagnato un mese in questo modo. È necessario essere proattivi quando c’è l’urgenza; è uno dei concetti del project management.

La risposta non è negli straordinari poteri commissariali

SDA Bocconi: Ritorniamo al tema più spinoso per qualsiasi grande o piccolo progetto, la procedura di selezione dell’impresa. Quali sono le scelte che avete fatto per coniugare rapidità e tutela dell’interesse pubblico? 

Bucci: Utilizzare l’articolo 32 [della Direttiva] significa fare molto lavoro in parallelo e soprattutto significa non fare certe cose, ad esempio non abbiamo fatto una graduatoria. Noi abbiamo scelto il progetto migliore, sulla base di alcuni criteri che abbiamo scritto nel decreto.

SDA Bocconi: Sul tema del team, quali sono stati i momenti più critici, in cui i membri di questo team hanno fatto più fatica a trovare una convergenza?

Bucci: Sin dall’inizio, ho istituito la riunione del venerdì. Ogni venerdì due ore di riunione. Un momento che obbliga tutti a parlare di certi argomenti. E’ un metodo usato anche dai militari, ma anche nelle lean factory (morning breakfast meeting). È un sistema che funziona perché obbliga ad affrontare certi argomenti; le persone si devono esporre, possono esserci diverbi, ma fanno bene, danno energia al sistema. Il sistema deve essere energetico. L’energia deve essere associata all’azione. E poi bisogna capire le diverse culture. Un po’ come fare una negoziazione con un giapponese; può andare avanti per mesi.

SDA Bocconi: L’esempio dei giapponesi è divertente: si potrebbe paragonare la negoziazione con il giapponese al confronto con un leguleio amministrativista, che antepone i vincoli al risultato. Come ha gestito questi vincoli e la cultura amministrativa?

Bucci: Il mio approccio con la cultura burocratico-amministrativa è molto semplice. Ci sono tre frasi che non vanno mai dette. La prima è “ci stiamo lavorando” che è una cosa che non vuol dire niente, certo che stai lavorando altrimenti non saresti qua. La seconda frase è “non si può fare per legge”. Quando uno dice non si può fare per legge, la mia risposta è sempre quella di “fammi vedere la legge” e guarda un po’ nel 99,9% dei casi esiste almeno un’altra legge che invece permette di farlo. L’altra frase che è famosa è “abbiamo sempre fatto così”. Ecco, sin dall’inizio ho chiarito che queste frasi o meglio questi atteggiamenti non potevano esistere nel gruppo di lavoro. Chiariamo: i “signor-no” sono preziosi nei processi decisionali, aiutano a prevedere i rischi e a prepararsi meglio. Basta che siano pochi!

SDABocconi: Nel team c’erano rappresentati degli apparati burocratici per eccellenza o per lo meno quelli percepiti in questo modo dalla maggior parte del management pubblico, per esempio la Corte dei Conti. C’è stata qualche barriera di tipo culturale tra Lei e loro, o il fine tuning è stato immediato?

Bucci: No, non c’è stata rigidità culturale, assolutamente no, ha dominato l’allineamento alla necessità. Erano perfettamente consapevoli dell’urgenza. La consapevolezza dell’obiettivo, l’allineamento verso l’obiettivo è fondamentale.

SDABocconi: Come ha formulato l’obiettivo al suo team? Dobbiamo tirare sul il ponte… il ponte deve essere percorribile entro…?

 Bucci: Non vi mettete a ridere ma è vero. Ho detto “andate al cinema o su Netflix, dove volete e guardatevi Apollo 13. Noi siamo dentro la navetta spaziale di Apollo 13, non abbiamo alternative, bisogna fare questo ponte, punto. E non possiamo farlo in 6 anni, dobbiamo farlo subito perché costa 6 milioni al giorno. Tutto il resto è fuffa. Tutto quello che c’è deve servire per l’obiettivo di Apollo 13: tornarsene a casa, tornarsene a terra. Il ponte ci permetteva di tornare a casa”.

SDABocconi: Qual è stato l’ostacolo principale che avete incontrato, quello che ha più di altri aumentato il rischio di allungare i tempi?  E come lo avete risolto?

Bucci: Il più grosso è stato quello dell’amianto, sicuramente. Con una scelta difficile, se utilizzare l’esplosivo o se spaccare il ponte pezzo per pezzo. Dibattito infinito, abbiamo rallentato per due mesi e mezzo, sennò avremmo finito due mesi e mezzo prima. Tra l’altro, detto sinceramente, il problema è stato sovrastimato, perché, anche dal punto di vista delle quantità di amianto dentro il ponte - che era amianto naturale dentro le pietre del calcestruzzo - Le concentrazioni erano assolutamente accettabili. Ma noi invece abbiamo cercato di fare le cose ancora meglio di quanto la legge avesse previsto.

SDABocconi: La storia dell’amianto è interessante, soprattutto per sapere come ha gestito i pareri tecnici. Su questo tipo di vicende, che osserviamo anche in altri contesti, ci sono dinamiche interessanti tra chi deve prendere la decisione e la posizione dei tecnici, che è sempre di grandissima prudenza. Ma, alle volte, quella prudenza rischia di non considerare altri rischi, ad esempio sociali, economici. Un tema che in questi mesi stiamo osservando nella pandemia globale, ma abbiamo visto anche nei terremoti.

Bucci: Non c’è solo il parere tecnico, c’è anche la popolazione che vive attorno, che è tutto fuorché tecnica. Ci sono quattro dinamiche: il parere tecnico, il parere degli appaltatori che devono lavorare, il punto di vista di quelli che vivono attorno che non vogliono nemmeno sentir parlare di polveri nell’aria. Poi ci sei tu che devi decidere. La dinamica meno importante è quella dell’appaltatore: l’impresa deve fare quello che il Commissario decide. La figura più importante è la popolazione, le persone che vivono attorno e a cui devi dare un messaggio tecnico ma comprensibile e affidabile. Poi hai i tecnici ai quali devi dare dei messaggi molto chiari, che non sono semplicemente fammi l’analisi. Io ho chiesto gli scenari e non i dati. Ovviamente gli scenari devono essere suffragati dai dati: se prendo la decisione A quale è la probabilità del danno x, y e z? Cosa succede invece se prendo la decisione B? Ciò che per esempio non è accaduto con la pandemia. Gli scenari devono dirmi le probabilità di rischio e su quelli si prende la decisione. Il tecnico ha la responsabilità della costruzione dello scenario, non della decisione. Io ho la responsabilità della decisione basata sugli scenari dei tecnici. Se lo scenario è sbagliato è colpa del tecnico, se la decisione è sbagliata è colpa mia.

SDABocconi: Alla fine avete deciso di far esplodere il ponte, giusto?

Bucci: Ho fatto costruire dall’università di Torino una rappresentazione delle polveri nell’aria a 5 minuti, a un quarto d’ora, a un’ora e per le 24 ore successive dall’esplosione, in modo da avere le curve di iso-powder, che vuol dire le curve dove viene indicata la stessa concentrazione di polveri per aree geografiche, a dieci metri e a trenta metri dal ponte. Queste curve dicono dopo quanto tempo dall’esplosione non ci sarà più polvere. Il dato teorico diceva che dopo 14 ore non avrei più avuto polvere [sospesa nell’aria]. In questo scenario avrei evacuato la zona non per 14 ma per 28 ore, per ridurre ulteriormente il rischio. Con l’altro scenario, smontare il ponte, era necessario mandare squadre a 98 metri di altezza a tagliare i pezzi del ponte, con una probabilità molto molto alta di avere almeno due morti.

Allora io ho fatto una riunione con tutti i comitati dei cittadini in cui ho spiegato che avrei scelto l’esplosione perché non avrei messo a rischio la vita di nessuno.

Quando è avvenuta l’esplosione [con tutti gli accorgimenti necessari], due ore dopo non c’era più polvere in aria. La gente, che abitava nel raggio di un chilometro dall’esplosione, è tornata a casa alle 7 di sera, dopo che era uscita alle 7 di mattina.

SDABocconi: Provando a modellizzare quanto appena detto, il ruolo che lei ha avuto è stato quello non solo di fare committenza su scenari e dati e poi di elaborare la decisione, ma soprattutto di tradurre questi scenari, e quindi tradurre il senso di questa decisione alla popolazione, spiegando la logica alla base della sua scelta.

Bucci: Se vuoi esercitare il ruolo di leader devi essere esposto, non puoi essere nascosto. “Grab the flag and take the hill”, prendi la bandiera e sali sulla collina, proverbio della guerra di secessione americana. Il leader deve fare così, deve esporsi di fronte a tutti, questo fa parte del gioco, non si può non fare.

Il tecnico ha la responsabilità della costruzione dello scenario, non della decisione. Io ho la responsabilità della decisione basata sugli scenari dei tecnici. Se lo scenario è sbagliato è colpa del tecnico, se la decisione è sbagliata è colpa mia.

Cosa impara un manager facendo il sindaco?

SDA Bocconi: Sindaco, Lei fa spesso ricorso agli apprendimenti maturati nella sua esperienza manageriale in contesti business e come questi Le sono stati d’aiuto nel ruolo che ha svolto in questi due anni. Facciamo il gioco contrario. Immagini di tornare a guidare una grande azienda: quali apprendimenti maturati al vertice di una grande amministrazione pubblica pensa che potrebbero essere utili? Cosa Le lascia questa esperienza come manager?

Bucci: E’ una domanda che non mi hanno mai fatto e una situazione a cui non ho mai pensato. Sicuramente quello che ho imparato è che nel pubblico i driver sono qualità del servizio e riduzione dei costi, efficacia ed efficienza, ma senza generazione di profitto. Se ritornassi nel privato cercherei di capire la possibilità, su alcuni prodotti, di applicare la stessa logica. Pensiamo alla sfida della digitalizzazione globale. Su questo, credo, le grandi aziende private potrebbero ragionare con queste logiche, azzerando il profitto finanziario per massimizzare quello sociale. Stanno emergendo diversi approcci, dalla shared value creation all’impact investing, ma penso che l’esperienza di gestione di aziende pubbliche possa dare un contributo importante al conseguimento di obiettivi di sviluppo di lungo termine. Poi ho imparato l’importanza dell’esposizione ai problemi, il contatto quotidiano con i cittadini. Credo che sia fondamentale per ogni manager incontrare le persone dell’azienda, i clienti, toccare con mano. Ci si fa una idea più chiara dei problemi e quindi delle soluzioni. Infine, mi porterei in azienda l’importanza delle soft skills, su cui ho sempre creduto. Ma qui è ancora più evidente: quando ti trovi a gestire tanti servizi e molto diversi tra di loro, le competenze tecniche sono relative. Conta l’approccio manageriale per fare i numeri. E la leadership per fare la differenza.

 

Quando ti trovi a gestire tanti servizi e molto diversi tra di loro, le competenze tecniche sono relative. Conta l’approccio manageriale per fare i numeri. E la leadership per fare la differenza.

Il “Caso Genova” insegna alcune cose, che possono essere di ispirazione in una fase di rilancio di grandi progettualità per il Paese. Il primo è che l’ingrediente segreto per il successo non è il regime dello stato di emergenza sul piano normativo: l’unica deroga nel processo di ricostruzione esercitata in virtù dei poteri commissariali, infatti, è riconducibile alla facoltà di applicare direttamente la Direttiva 24/2014/EU, che non elude certo la comparazione competitiva tra più offerte, come si evince anche dai riferimenti normativi nel racconto. Al contrario, a fare la differenza sembra essere stata soprattutto la forza di dare voce al senso di urgenza della Città di Genova di tornare alla normalità. Il senso di urgenza – e non i poteri dello stato di emergenza – diventa la bussola che orienta tutta l’azione commissariale. Per farlo, occorre tradurre l’urgenza in una misura concreta: Genova perde sei milioni di euro ogni giorno senza ponte. Certo, i tempi delle norme non possono essere compressi, ma possono essere anticipati: niente di quello che può essere preparato o accelerato è lasciato indietro, con una logica proattiva, invece che reattiva. Allo stesso modo, la gestione dell’imprevisto – il rischio di contaminazioni da amianto nella demolizione dei resti del ponte – è improntata all’assunzione piena di responsabilità, senza fughe dietro i pareri tecnici (pareri, appunto, non decisioni), ma anche senza paura del confronto con la popolazione.

Questa esperienza apre, pertanto, una riflessione sul ruolo commissariale: è un ruolo per tecnici o per politici? A giudicare da questa esperienza, far coincidere il ruolo del commissario con quello dell’amministratore, in questo caso il Sindaco, figura la più prossima ai cittadini, sembra una soluzione vincente. Inoltre, sempre a supporto di questa scelta, non sfugge il vantaggio di poter allestire una struttura commissariale che non lavori nel vuoto organizzativo, ma che si possa avvalere della collaborazione con le competenze degli uffici comunali. Infine, a proposito del modello organizzativo, la scelta di comporre una squadra che incorpori le diverse “razionalità in gioco” espresse dai mondi di provenienza dei membri (Corte dei Conti e Procura) segnala quanto l’orientamento al risultato non sia certo incompatibile col rispetto dei vincoli amministrativi: la competenza in gioco è tenerli insieme. Come si fa in una squadra con tutti i giocatori.

 

 

SHARE SU