#ValorePubblico

Il personale degli Enti Locali (e della PA tutta) non è solo una voce di spesa (Parte 1)

Un po’ di buon senso manageriale, in mezzo a tanta modellistica ragionieristica

A L E R T ! Non è un post lacrimoso sul fatto che le persone non sono un numero o robe simili (che pure penso, ma non è questo il punto). E’ un post sulla necessità di iniettare un po’ di buon senso manageriale, in mezzo a tanta modellistica ragionieristica, nella regolazione dell’autorizzazione ad assumere nel settore pubblico. Gli ultimi due anni sono stati animati dalla grande novità dello sblocco delle assunzioni, dopo oltre 10 anni di cancelli chiusi per i candidati all’impiego pubblico. Sono cambiati a riguardo anche i dispositivi: superamento della logica della pianta organica (un nonsense organizzativo di stampo burocratico) e introduzione di una logica di budget assunzionale, calcolato sulla base delle risorse liberate dalle cessazioni, da allocare con ampi spazi di autonomia. Ma non si fa in tempo a lanciare i primi concorsi, che già la norma cambia. Il Decreto Crescita di Aprile (DL 34/2019) prevede infatti che il calcolo del budget da spendere per le nuove assunzioni sia calcolato sulla base dello ‘stato di salute’ dei conti comunali. La novità è inizialmente accolta con entusiasmo, ma secondo il Sole 24 Ore, le prime applicazioni di questo metodo di calcolo premierebbero solo una piccola minoranza di Comuni spiccatamente virtuosi, ai danni invece della maggioranza. E’ questa la fine dello sblocco del turnover? Probabilmente no, l’intenzione di ricominciare ad assumere sembra non in discussione. Ma il metodo si presta a qualche riflessione.

La spesa pubblica non è mai troppo poca, quando non si capisce che valore genera

10 anni di tagli al pubblico impiego

Ancora una volta, l’unico tema in agenda quando si parla di pubblico impiego è il suo impatto in termini di spesa pubblica: nei fatti, l’unica vera riforma del pubblico impiego degli ultimi 10 anni è la sua riduzione, come strumento di contenimento della spesa pubblica. Smettere di assumere è il modo più invisibile e politicamente indolore di ridurre la spesa. Anzi, può funzionare molto bene nella comunicazione politica se lo si presenta come strumento per ‘snellire’ e ‘rendere più efficienti’ le burocrazie pubbliche. Ma se guardiamo ai dati, l’unica certezza è che l’Italia è il Paese che ha assoggettato le politiche del pubblico impiego alla priorità del contenimento della spesa pubblica: dal confronto con Francia e Germania (Ns. elaborazione dati Eurostat) emerge che negli ultimi 10 anni l’Italia ha ridotto di oltre 1,8 miliardi la spesa in stipendi pubblici.

Assumere un monaco amanuense o un data analyst magari costa uguale, ma non produce lo stesso valore

Questo “sblocco-sì-ma” del turnover continua a riprodurre la stessa logica: sguardo fisso sulla spesa, nessuno vero strumento di governo su come queste risorse saranno utilizzate. D’altro canto, nessuna novità: chi ha mai letto i documenti di programmazione del personale (c.d. ‘Piano triennale dei fabbisogni’) degli enti locali, pur obbligatori per poter assumere? E’ sufficiente scriverne uno, far tornare i conti e inviarlo alla Ragioneria Generale dello Stato. Se poi dichiaro di voler assumere un monaco amanuense invece di un data analyst a nessuno importa e tutto è lecito. Tranne qualche progettualità lanciata in via sperimentale, che supporto è stato dato agli enti per imparare ad utilizzare l’opportunità di tornare ad assumere in modo da farne una leva di cambiamento organizzativo radicale, di innovazione nei servizi, di cambio culturale? La sfida delle nuove assunzioni non è solo quanto costeranno, o quanti posti in più saranno creati, ma soprattutto che valore saranno in grado di generare e per farlo occorre aiutare gli enti a prendere meglio la mira su quali sono le professionalità del futuro che servono nei nostri comuni, ad attrarre i giovani più talentuosi, a rinnovare le procedure concorsuali per smettere di selezionare solo i più studiosi, ma anche i più dinamici e motivati. Questi temi latitano nel dibattito politico e pubblico e continuiamo invece a tenere lo sguardo fisso sul costo finale. Salvo scoprire che la spesa pubblica non è mai troppo poca, quando non si capisce che valore genera.

 

PS: (segue a breve Parte II, col supporto di Gianmario Cinelli su come fare del Piano Triennale dei Fabbisogni una leva di sviluppo strategico)

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