Il Meglio del Piccolo

Crescere in coerenza con i propri valori: il caso Cappadonia

Ho il grande privilegio di svolgere un lavoro che mi permette di incontrare persone speciali.

L’ultimo incontro è stato quello provocato da Donato Didonna, un amico palermitano che, da tempo, mi proponeva di conoscere il suo socio in affari.  Donato, dopo una carriera nel mondo della finanza, ha deciso, una dozzina di anni fa, di investire nel settore del food e, in particolare, nelle gelaterie. Il suo partner in questa iniziativa imprenditoriale si chiama Antonio Cappadonia, maestro gelatiere siciliano. 

La creazione di un gelato perfetto richiede non solo ingredienti di alta qualità, ma anche una padronanza tecnica e un tocco alchemico: scienza e “magia” si devono amalgamare. Antonio Cappadonia è esattamente questo. Ha dedicato la sua vita a perfezionare quest’arte, studiando le proprietà degli ingredienti, sperimentando combinazioni di sapori e lavorando sulla consistenza e sulla presentazione del gelato. Nato a Cerda, piccolo comune nel cuore delle Madonie, a circa 60 km da Palermo, mentre frequentava la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, ha trovato nel gelato l’ispirazione che ha segnato la sua vita e, come capita a molti imprenditori che lasciano un segno, ha abbandonato gli studi per dedicarsi pienamente alla sua missione. Dopo l’apertura della prima gelateria nel 1987 nella sua cittadina d’origine, avendo imparato a sua volta da un maestro che gestiva la più antica gelateria del suo paese, ha ricevuto numerosi premi per le sue creazioni (da sei anni consecutivi vince il riconoscimento Tre Coni della prestigiosa guida gelaterie d’Italia del Gambero Rosso) insieme al successo dello Sherbeth Festival, il Festival Internazionale del Gelato Artigianale, di cui è direttore fin dalla prima edizione.

Didonna scopre Cappadonia all’indomani dell’uscita di un articolo di una intera pagina sul Financial Times, ripreso poi da Il Sole 24 Ore, in cui si celebrava la sua maestria. Nel 2013 i due costituiscono la loro società. Inizialmente Donato pensava ad una possibile crescita in America, piano strategico repentinamente abbandonato, avendo compreso la necessità preliminare di un rafforzamento locale. Il binomio tra i due ha permesso fin da subito una concreta svolta. Donato si è fatto carico delle molteplici attività che distraggono da tutte le operazioni prettamente produttive, consentendo ad Antonio di focalizzarsi e dedicare tutto il suo tempo ai processi cruciali: la ricerca delle materie prime, lo studio e il miglioramento del processo di produzione, la formazione del personale e le relazioni con altri maestri gelatieri nel mondo. Questa chiara divisione dei compiti tra i due soci ha consentito negli ultimi sei anni di aprire tre gelaterie a Palermo, mantenendo il laboratorio di produzione centralizzato a Cerda. Oggi impiegano in totale una quindicina di dipendenti con un fatturato da micro impresa (sotto il milioni di euro) che però segna incrementi annui medi del 30 per cento.

I numeri di cui parla Antonio però sono altri. Sono quelli relativi alle sue strabilianti ricette. Ascoltarlo è emozionante. Le sue descrizioni dei colori, dei profumi e dei sapori degli ingredienti alla base dei suoi gelati ma anche dei luoghi e del paesaggio dove queste materie prime vengono coltivate e raccolte è pura poesia: sorbetto al mandarino tardivo di Ciaculli, crema al passito di Noto, fichi d’India di San Cono nelle diverse varietà sulfurea, muscaredda e sanguigna…..

Potrei proseguire, entrando nei dettagli, ma preferisco rimandare alle immagini dei due video per soddisfare la curiosità su questo modo veramente artigianale (nel senso di artistico) di concepire il gelato.

 

 
 

Qui mi interessa riportare la discussione che con Antonio e Donato abbiamo avuto sul tema della dimensione, aspetto cruciale soprattutto per un socio investitore.

Donato che, per la sua storia professionale, ha una visione più manageriale, mi racconta che, attraverso un Dottorato di Ricerca, stanno studiando la possibilità di trasportare su lunghe distanze un preparato di base in grado di preservare al massimo le fasi aromatiche e la struttura della miscela, come se fosse prodotta a pochi chilometri dal luogo di consumo.

Su questa ipotesi interviene Antonio in modo chiarissimo, netto. “Andiamo cauti sulla crescita. A me di questo progetto interessa la qualità e l’aspetto culturale connesso alla produzione del gelato per veicolare alcuni valori imprescindibili. Il primo è la lentezza: il processo produttivo può e deve essere efficientato in alcune fasi ma non in tutte perché se così fosse si perderebbe quel livello qualitativo fuori scala che fa la differenza nei miei gelati”. La ricerca di soluzioni tecnologiche per migliorare la produttività è apprezzata se e solo se non comporta compromessi nella qualità e soprattutto se non porta a tradire i valori di base. “Ho valutato attentamente l’acquisto di un macchinario giapponese per pelare la frutta ed alla fine abbiamo fatto l’investimento perché l’automazione di quella fase così delicata - con quello specifico macchinario - ha persino migliorato il modus operandi manuale che usavamo in precedenza, senza alcuna alterazione del gusto del prodotto finito….. Sto per partire per Stoccarda. Andrò a vedere dei macchinari che comprerò solo se i produttori tedeschi accetteranno di realizzarli secondo le mie varianti personali…l’impianto standard non mi interessa”. 

Un secondo valore imprescindibile è quello della stagionalità e del rispetto dei tempi della natura. L’idea di fondo - scontata a parole ma molto meno nei fatti - è che la natura sia superiore all’uomo e che non debba esserci la presunzione umana di un controllo assoluto. 

Un terzo principio attiene alla possibilità di fare cultura, attraverso il gelato: diffondere ai giovani consumatori una conoscenza di prodotti, sapori, odori e territori che altrimenti andrebbe perduta. Una cultura unica di paesaggi, di coltivazioni, di luoghi e persone da preservare. 

Il numero di punti vendita da aprire e la loro localizzazione sarà vincolata da questi valori.  Se consentirà di confermarli e di diffonderli cresceremo anche quantitativamente, altrimenti la nostra crescita si manifesterà sul piano qualitativo del miglioramento continuo, della sperimentazione e della ricerca”.

Donato segue il discorso e, al fondo, concorda. Una dialettica contrapposta tra loro su questo tema è fondamentale per il futuro dell’azienda. Ben vengano le proposte innovative del socio manager ma esse andranno recepite se e solo se rinforzeranno ulteriormente la strategia e la visione del socio imprenditore.

Antonio ha sessant’anni e non ha figli; l’azienda è la sua unica creatura ma ha già identificato, oltre a suo fratello Pino, una collaboratrice su cui nutre piena fiducia, che sta facendo crescere secondo la sua scuola. Mi dice che si tratta di una giovane donna albanese, proveniente da una famiglia di contadini. Nelle sue mani forti c’è la magia giusta, “quell’intelligenza dei polpastrelli” che, mi racconta, faceva sì che le mucche della sua stalla preferissero essere munte da lei. Ha la forza di movimentare i sacchi da 25 chili di zucchero ma ha anche la sensibilità per riconoscere la qualità di una partita di frutta da acquistare al volo.

Per concludere, abbiamo, in questo caso, l’ennesima dimostrazione che la dimensione di una azienda è solo una variabile dipendente da calibrare in funzione della propria strategia. La crescita qui sarà perseguita se e solo se potrà garantire quell’esperienza di consumo che è l’esito della specifica visione di Cappadonia: quella di un mondo in cui la natura e i suoi cicli vanno rispettati, riconoscendone, in ultima battuta, la possibilità del sopravvento sull’uomo. La tecnologia non è rifiutata a priori, anzi qualsiasi innovazione è ben accetta se consente di rinforzare i principi di base. La continuità di questo modello è possibile e avverrà attraverso la successione e l’individuazione di un “erede” desideroso di portare avanti i medesimi valori.

Questo è un caso opposto a quello di Grom, dove la crescita per aumentare il valore e poi vendere ad una grande multinazionale è diventata il fine esclusivo dell’agire imprenditoriale, supportata da due micidiali propellenti: il marketing fallace “del gelato buono come una volta” e la finanza a debito.

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