La moda è uno dei settori a essere stato più pesantemente colpito dalla crisi: le aziende hanno iniziato a perdere fatturato già a gennaio, in conseguenza del fatto che soprattutto i marchi del cosiddetto lusso generavano una grossa percentuale del loro fatturato in Cina e grazie ai turisti cinesi nel mondo. Poi è arrivata la paura di contagio nelle settimane della moda (con Armani che per primo ha fatto una sfilata a porte chiuse), è seguita la chiusura dei negozi prima e dei siti produttivi poi, e tante aziende si sono meritoriamente impegnate nella riconversione della loro produzione per fornire camici medicali e mascherine e donazioni generose sono pervenute da grandi marchi e stilisti.
In generale, in un momento di austerity e di focus sui valori interiori, gli acquisti di moda sembrano superflui, frivoli, non necessari: i leggings e la felpa sono l’outfit di ordinanza dello #stayhome e, pulendo gli armadi, ci si è resi conto che sono già pieni di vestiti e accessori. Del resto la pressione verso una moda più circolare e perciò sostenibile aveva già aperto la strada all’idea di «spendere meno per spendere meglio»: meno capi ma di qualità più elevata e con uno stile più iconico che duri nel tempo.