#ValorePubblico

Il lato sexy del DOGE

L’esperienza DOGE, con tutte le sue contraddizioni e controversie, non può essere liquidata con superficialità. La sua popolarità (considerato che è già un brand per la riforma della PA e del welfare) ci costringe ad una riflessione anche in Europa.

In questo post: la critica a DOGE, i punti di forza e gli spunti di riflessione per questa parte dell’Atlantico.

Partiamo dalla parte più facile: le critiche.

Il Department of Government Efficiency (DOGE) è un’iniziativa di riforma finalizzata a ottimizzare l’efficienza della spesa pubblica con un target da capogiro: far risparmiare all’erario americano 2.000 miliardi di dollari. Incardinato da Trump nella US Digital Service e affidato alla guida del discusso miliardario magnate delle tecnologie Elon Musk, il DOGE ha avviato una serie di riforme volte alla digitalizzazione dei servizi, alla riduzione degli sprechi e alla razionalizzazione del personale amministrativo. Con quali esiti preliminari?

Ecco la prima critica: non si sa.

Non si sa, perché i numeri sono sbagliati e inaccurati, probabilmente più a causa dell’inesperienza (e mancanza di conoscenza del contesto) del team di giovanissimi nerd che sta lavorando a questi dossier, che di un qualche tentativo di manipolazione dei dati. E anche i numeri che sembravano certi, quelli relativi agli impressionanti licenziamenti (1300 persone del dipartimento dell’istruzione, 2.200 di USAID, l’agenzia per la cooperazione allo sviluppo americana, per citare solo i più discussi), oggi non lo sono più: gli esiti dei ricorsi alla magistratura potrebbero obbligare a reintegrare i licenziati.

Ed ecco la seconda critica: la legittimità della leadership del DOGE e dei suoi atti.

Chi non frequenta molto le pubbliche amministrazioni o la legge o anche solo i fondamentali dello stato di diritto tende a sottostimare la questione della legittimità: una decisione pubblica produce effetti solo se è presa in conformità con il quadro giuridico. Ad esempio, si contesta che un semplice dipartimento come DOGE abbia il potere di disporre il taglio di spesa autorizzata dal Congresso (funzione legislativa): emblematico il caso dei fondi per la cooperazione allo sviluppo che sono uno strumento non solo di coesione globale, ma anche di posizionamento diplomatico nazionale. E si contesta anche il ruolo stesso di Musk, che non risulta avere un incarico esecutivo coi poteri correlati in conformità alla legge, né è chiara la procedura che ha autorizzato il pool dei suddetti improvvisati consulenti attinti dal vivaio di Tesla e SpaceX ad avere accesso a dati governativi sensibili.

Entrando nel merito delle decisioni prese, c’è chi ne contesta la bontà sul piano dell’impatto economico (l’aumento della disoccupazione, in un momento che odora già di recessione) e chi l’efficacia: FT, ad esempio, documenta l’aumento dei costi del governo federale, invece della loro riduzione. Reuters racconta la situazione paradossale di tagli che aumentano l’inefficienza, invece del contrario: a forza di ridurre il personale anche in amministrazioni cruciali, come il Bureau of Land Management che guida la nuova strategia di ritorno al combustibile fossile, le autorizzazioni necessarie a rendere esecutivi i piani di Trump vanno al rallentatore. Un po’ come quando hanno dato quasi 200 miliardi da spendere alla rinsecchita e invecchiata pubblica amministrazione italiana per poi lamentarsi che non fosse abbastanza veloce e pronta a cogliere la sfida.

Le critiche che arrivano dalla comunità accademica sono forse meno note al dibattito pubblico, eppure tutt’affatto prive di elementi utili. Donald Moynihan, prof. di public policy alla Ford School dell’università del Michigan, produce con ritmo quasi quotidiano analisi e riflessioni sul tema. Recentemente ha ospitato nel suo blog un contributo del prof. Kohei Suzuki, studioso dei sistemi di pubblico impiego a livello globale, che prova a leggere il fenomeno DOGE secondo una prospettiva di comparazione internazionale: l’argomento che propone è che dove c’è un arretramento democratico, c’è anche un arretramento amministrativo. E viceversa. Questa regolarità, che ha una certa validità in giro per il mondo, dovrebbe essere tenuta ben in conto in questo momento per meglio comprendere il fenomeno DOGE.

Ma la riflessione (e la critica) forse più profonda, articolata ed autorevole arriva da uno dei più noti ed influenti politologi americani, neoconservatore di matrice reaganiana, Francis Fukuyama. L’autore de “La fine della storia” che nel 1992 aveva preconizzato che la vittoria americana della Guerra Fredda avrebbe sancito il dominio perpetuo della democrazia liberale e del capitalismo di mercato, più recentemente si è ricreduto: non aveva considerato il fascino che il capitalismo di stato, monopolistico e clientelare può esercitare su alcuni sistemi di potere, meno affezionati ai suddetti principi della democrazia liberare. Infatti, i suoi studi più recenti sono devoti alla riscoperta della matrice liberare delle istituzioni democratiche, di cui il civil service è un architrave irrinunciabile. La crescente ostilità verso “la burocrazia” diffusa nelle democrazie più consolidate è da attribuirsi, secondo il politologo, ad una sorta di smarrimento della consapevolezza collettiva (anche intellettuale) della funzione vitale che una pubblica amministrazione professionalizzata e imparziale assicura al successo economico e sociale di una nazione liberale. Questa consapevolezza non implica la negazione delle fisiologiche (e correggibili) disfunzioni del settore pubblico americano, che lui ben riconosce, ma richiede che queste siano approcciate in modo da rinnovare, non annichilire le istituzioni. Di qui la sua polemica contro riforme come Schedule F., un ordine esecutivo firmato da Donald Trump nel 2020 che mirava a riclassificare migliaia di dipendenti pubblici federali, rimuovendoli dalle tradizionali tutele del civil service e rendendoli più facilmente licenziabili o politicizzabili. Misura rimossa da Biden e ritornata in auge con la nuova amministrazione.

Quale sarebbe, dunque, il lato sexy?

Trump, nel discorso sullo stato dell’Unione di inizio marzo, nel punto in cui parla di DOGE afferma sardonico che il programma in fondo stia piacendo anche ai Dem, anche se non vogliono ammetterlo pubblicamente. E non si fatica a credergli. Le nuove classi di politici, che si affacciano per la prima volta all’arte di governo, sono accomunate dalla diffidenza sistematica verso la burocrazia, cui attribuiscono la responsabilità maligna e sabotante di non eseguire intenzionalmente gli indirizzi loro assegnati. Una certa politica fatica a cercare le cause della sua scarsa incisività altrove (nelle visioni modeste, nella scarsa conoscenza del contesto, o più generalmente nella complessità dei problemi che si trovano ad affrontare, irrisolvibili con soluzioni semplici e immediate) e si rifugia nella cultura della colpevole autoreferenzialità delle strutture. Un programma che promette di sbarazzarsi di questa zavorra e, allo stesso tempo, di liberare risorse e recuperare margine di agenzia è molto seducente.

 

A questa inclinazione della politica si aggiunge fatalmente il consenso popolare che le agende di “sburocratizzazione” suscitano. Quando il costo del debito diventa un ostacolo al benessere, più la riduzione della spesa pubblica è visibile e plateale, più si trasforma in un risultato in sé. Inoltre, per le classi più fragili e meno istruite, le più esposte alle incertezze di un mercato del lavoro che impoverisce ed isola, immaginare distinti funzionari con lauree e master in coda nei centri per l’impiego fa assaporare l’ebbrezza di una qualche forma di giustizialismo sociale. Quando le istituzioni pubbliche perdono di incisività nella loro funzione di coesione sociale, il consenso per la loro difesa si sfalda. A tal proposito, nel film tratto da American Elegy, il best seller del vice presidente J.D. Vence, i figli della classe operaia della società post industriale affrontano la precarietà economica, affettiva e sanitaria irrimediabilmente da soli: le istituzioni pubbliche sono semplicemente assenti. Compare per un attimo il gentile fattorino di un programma di “meals on wheels”, un servizio di pasti a domicilio per i più fragili. Ma solo per un attimo. Infatti, il giovane J. D. svolta e passa dal ciondolare in periferia ai banchi di legge a Yale perché capisce che l’unica cosa che può salvarlo dalla marginalità è la sua pervicace determinazione. Non c’è un professore, un dottore, un assistente sociale che tenda una mano. Solo il vortice tossico del clan familiare. Questa America pensa sia più probabile diventare vice presidente degli Stati Uniti, che essere aiutati dalle istituzioni pubbliche a costruire una vita migliore. Ecco perché questa America, al contrario di alcune élites intellettuali, non si straccia le vesti se la PA chiude bottega.

 

Se questo è tipico del modello americano, da questa parte dell’Atlantico si osserva un progressivo abbandono delle istituzioni pubbliche, che produce fatalmente modelli di interfaccia (digitali e non) completamente disconnessi dalla contemporaneità, incastrati in sistemi di regole e procedure incomprensibili, generando per lo più insofferenza nell’utenza di ogni età ed estrazione sociale: il DOGE si fa così irresistibile per tutti.

 

Se questa è la benzina del motore di DOGE, giudici o no, il programma ha un gran futuro. In America e non solo. Non stupisce che The Economist di questa settimana, per raccontare della riforma draconiana del sistema sanitario inglese, scelga di usare l'etichetta DOGE, anche se Musk non c’entra niente: piaccia o non piaccia, è già un brand per la riforma della PA e del Welfare anche in Europa.

Abbracciare o resistere al brand DOGE?

È una storia che abbiamo già visto. Il programma DOGE non è altro che la versione turbo-tech del New Public Management. E se guardiamo a come ha funzionato quella esperienza, possiamo dedurre che arriverà anche in Europa. A fare la differenza sarà come intendiamo guidare questo processo. Oggi come allora il problema è il come della strategia di trasformazione, non la sua necessità, soprattutto alla luce dei chiari segnali di cambio del ciclo economico e di riorientamento e contenimento della spesa pubblica. Se il bisogno di cambiare la pubblica amministrazione in modo più coraggioso e incisivo è sempre più diffuso e radicato, occorre prenderne atto e anticipare l’onda cominciando a dibattere di una nuova agenda.

 

A tal proposito, i punti di attenzione sono molti. Ne seleziono tre.

 

  1. Guidare e accelerare (senza subire) la rivoluzione digitale della PA

 

Una parte della soluzione per qualificare l’operatività dei servizi pubblici non è assumere più persone, ma qualificare il lavoro degli umani in un ambiente dove le macchine possono fare molto di più di quanto non facciano ora. Nei piani strategici del pubblico impiego (ad es. il Piano dei fabbisogni del personale del PIAO) una visione più chiara e più coraggiosa di come intendiamo utilizzare la leva tecnologica per fare fronte alla progressiva riduzione di persone è necessaria. Le nuove tecnologie AI-powered sono certamente una chiave.

Di questo processo non possono non fare parte i grandi player tecnologici privati, sebbene dentro un quadro di chiara sovranità digitale europea che consenta non di fare protezionismo digitale, ma di assicurare che le infrastrutture vitali per lo sviluppo economico e civile siano sotto la guida di un potere pubblico e democraticamente accountable. Sarà questo un freno alla digitalizzazione? No, se si sapranno qualificare le agenzie e le aziende pubbliche IT alla guida di questo processo.

 

  1. Riforma della PA come “no fly zone” della contesa politica e degli appetiti predatori della consulenza

 

Se c’è una cosa che l’esperienza americana ci sta insegnando è quanto è deleterio trasformare il programma della riforma della PA in un campo di battaglia politica. Per quanto siano legittime e anzi necessarie al dibattito democratico le divergenze di visione sul futuro delle istituzioni pubbliche, le decisioni in questo campo andrebbero trattate come si fa con quelle di politica estera: con spirito repubblicano e il più possibile collaborativo. Troppo sovente, invece, l’accordo bipartisan si è trovato solo nel proteggere le inefficienze che alimentano la dipendenza di un indotto di provider privati del mondo della consulenza e affini: può essere utile tenere a mente che mai come oggi quale debba essere il ruolo della consulenza è sotto severo scrutinio in US, ma anche in UK e in Francia. Necessario il contributo delle competenze della consulenza, ma occorre smettere di pensare che il settore pubblico sia una vacca da mungere per fare il fatturato che coi clienti privati è più difficile fare.

 

  1. Aprire luoghi di confronto che abilitino la co-costruzione di un’agenda ambiziosa

 

Immaginando di dare avvio ad una nuova agenda di trasformazione della funzione pubblica nella sua interezza sul modello DOGE, che coordini le strutture centrali e le autonomie locali, la sanità e la scuola, gli strumenti per le politiche di competitività e quelle del lavoro, il punto zero di questo processo è la costituzione di luoghi di confronto vero, serio, approfondito, sui dati e sulle esperienze, che abbia un tempo elaborativo non infinito, ma sufficiente a far lievitare una visione organica e integrata. Troppo spesso, infatti, i processi di riforma sono partiti con troppa fretta senza una chiara visione del punto di atterraggio e sono rimasti frammentati dentro i rivoli delle aree di competenza ministeriale, privi di un quadro di riferimento sistemico.

C’è una sola possibile protagonista di questo nuovo corso: è la dirigenza pubblica, che è l’unica che può avviare un processo di diagnosi e di proposta di riforma vera e capace di radicarsi. Lo saprà fare, se saprà rinunciare al comfort di posizioni corporative, attendiste o rassegnate. Inoltre, scegliere come cambiare offrirebbe qualche vantaggio in più rispetto a farselo prescrivere da un gruppo di tecno-tardo adolescenti appena usciti dal college. E assicurerebbe che lo scopo dell’operazione resti il rinnovamento delle istituzioni pubbliche a tutela della democrazia liberale e dell’economia di mercato. E non il loro smantellamento.

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