Nella società contemporanea gli individui sono sempre più incoraggiati a cercare (e trovare) lavoro non solo in quanto mezzo per raggiungere un obiettivo in termini economici, di carriera o di status, ma anche come fine in sé. In quest’ultima accezione il lavoro diventa fonte di significato (meaningful work). Ci sono casi nei quali questo tipo di lavoro diventa work as a calling, una chiamata a svolgere una certa professione. In tal caso non si tratta di un lavoro qualsiasi, bensì di un lavoro dotato di un profondo significato non solo personale, ma anche morale e sociale. Gli individui che considerano il proprio lavoro come una «chiamata» lo portano avanti non solo per se stessi, ma anche per gli altri, nella convinzione di contribuire a rendere il mondo un posto migliore. Per semplicità, in questo articolo il concetto di «chiamata», che rimanda alla tradizione protestante, è sostituito da quello di «vocazione».
Molti studi hanno evidenziato che vivere il proprio lavoro come vocazione porta a maggiore motivazione, impegno e soddisfazione. Pertanto, negli ultimi decenni molte organizzazioni – soprattutto quelle di stampo liberale che enfatizzano innovazione, creatività e autenticità – hanno orientato la loro attenzione verso il work as a calling. Tuttavia, il lavoro inteso come vocazione porta con sé non solo dei benefici, ma anche alcune importanti criticità che le organizzazioni tendono a sottovalutare, quali, per esempio, sfruttamento, ansia e manipolazione dell’identità. Queste criticità si rafforzano ulteriormente nei contesti organizzativi caratterizzati da elevata precarietà, come per esempio il settore artistico, educativo o non-governativo. Qui il lavoro è spesso vissuto come vocazione nonostante la precarietà e la generale bassa remunerazione. Ma gli individui che operano in tali contesti, come fanno a portare avanti il senso di vocazione nonostante le molteplici difficoltà materiali ed esistenziali? E con quali implicazioni?
A partire dall’esperienza di un gruppo teatrale composto da 21 attori, uno studio ha cercato di indagare come gli attori riescano a conservare e alimentare nel tempo la propria vocazione, cercando di gestire la tensione fra aspirazioni artistiche da un lato (art for art’s sake) e difficoltà materiali ed economiche dall’altro. L’analisi ha evidenziato che lavorando attivamente sulla narrazione della propria identità, gli attori conferiscono profondo significato a se stessi e al loro lavoro e sono in grado di continuare a esistere in quanto artisti, tenendo vivo in senso di vocazione.
Lo studio si è basato sull’osservazione del gruppo di attori durante quattro settimane di prove per la messinscena di uno spettacolo. Le prove, pur essendo intensive, non erano retribuite. Molti attori portavano avanti altri lavori in parellelo, sia nello stesso ambito artistico (insegnanti, doppiatori) sia al di fuori (commessi, camerieri). La raccolta dati è avvenuta attraverso interviste e osservazioni formali e informali. I soggetti intervistati hanno riportato fatti ed espresso opinioni, aspettative e lamentele, sviluppando tre narrative differenti: religiosa, politica e terapeutica. Si tratta di narrative costruite collettivamente dagli attori e alle quali gli attori hanno attinto per descrivere la loro vocazione e il modo in cui gesticono la condizione altamente precaria del loro lavoro. Ciascuna di queste narrazioni ha rivelato una struttura di base con un inizio (come è stato approcciato il teatro), una parte centrale (esperienze e difficoltà nel corso della carriera) e un finale aperto (possibilità di risoluzione).
Nella narrativa religiosa gli attori iniziano a fare teatro perché spinti da una forza trascendentale. Entrano quindi in quello che viene definito «uno spazio sacro» che per passione e senso di missione non riescono ad abbandonare. Qui emerge la figura del martire che porta avanti la propria fede nonostante la persecuzione. Il teatro è un sacrificio fatto per redimere gli infedeli (i non-artisti e gli artisti che abbracciano logiche commerciali); un sacrificio che porta l’attore-martire a rinchiudersi nella torre d’avorio dell’arte purificata dal mercato e a costruire una vocazione che lo eleva dalle norme sociali radicante nella logica capitalistica verso un’unità trascendentale. La vocazione come processo di elevazione prende forma all’interno di un’etica aristocratica che espone elitismo e prestigio. Nella narrativa politica, gli attori considerano il teatro come un progetto politico per trasformare la società. L’attore approccia il teatro come scelta di libertà e mosso da spinte di emancipazione socio-culturale. In questa narrativa l’attore è il cittadino della polis democratica con una forte responsabilità verso se stesso e gli altri: la responsabilità di svegliare le coscienze degli individui inconsapevoli dello sfruttamento a cui li sottopone la società dei consumi. Proprio perché il teatro è un atto di responsabilità, l’attore-cittadino non esce dal mondo purificando l’arte come fa il martire, ma entra nel mondo riconciliando arte e non-arte con un approccio pragmatico. Nel fare altri lavori con una forte componente commerciale – siano essi artistici (pubblicità) e non-artistici (cameriere, commessa) – l’attore-cittadino si sporca le mani perché questo è il modo per conoscere la realtà; un modo di acquisire conoscenza sulla realtà da poter ri-utilizzare sulla scena guidando lo spettatore verso la catarsi: la crescita morale dell’individuo. La vocazione assume i connotati della resistenza rispetto al sistema dominante, e prende forma nella cornice di un’etica populista che espone la volontà di creare un senso di comunità fra le persone e svegliare le coscienze.
Infine, la narrazione terapeutica inizia con un problema personale affrontato attraverso il teatro. Qui gli attori costruiscono l’identità del life coach che si focalizza sulla cura del sé come elemento fondante della propria esistenza. È nella convergenza di benessere e sofferenza che gli attori riconoscono il lato terapeutico del teatro, guidati dalla figura del maestro. In questa narrativa l’attore manifesta un approccio esistenziale al lavoro, nel quale il sé, fragile e insicuro, riesce a superare le difficoltà personali attraverso un lavoro che porta all’espressione di autenticità. L’identità dell’attore-life coach si definisce attorno a un continuo processo di auto-interrogazione nel tentativo di analizzare, conoscere, sviluppare ed esprimere il proprio sé in modo autentico in una società capitalistica altamente inautentica. L’attore-life coach non rifiuta completamente gli aspetti commerciali del lavoro, tipici della narrativa religiosa, né li abbraccia completamente (narrativa politica), ma li persegue in maniera opportunistica per se stesso. La vocazione è resilienza che non include l’altro ma solo il sé; un atto di autocompiacimento e autorealizzazione che si sviluppa nell’ambito di un’etica borghese nella quale l’ultimo telos è uno stile di vita autentico.
La vocazione ha varie dimensioni, orientamenti e cornici etiche spesso conflittuali che emergono da narrazioni conflittuali che riproducono e rinforzano dinamiche di sfruttamento; alimentano l’instabilità emotiva e psicologica degli individui; aprono alla possibilità di perpetuare l’insicurezza economica; manipolano l’identità. Il linguaggio non solo rappresenta la realtà, ma la costruisce. A un cambio narrativo corrisponderebbe verosimilmente un cambio organizzativo