Il Meglio del Piccolo

Piccolo non è bello ma è buono

Spesso in aula mi capita di affermare che il nostro modello originale di sviluppo economico, basato sulla piccola impresa familiare, non è un incidente di percorso casuale ma il portato di una eredità importante. Per spiegarlo penso agli insegnamenti che ho avuto dal Prof. Giulio Sapelli, storico ed economista che ha dedicato molti anni della sua lunga carriera a queste aziende.

A lui, tempo fa, posi la domanda di base: “Perchè in Italia ci sono così tante piccole imprese?” (gli ultimi dati disponibili parlano di 5 milioni e 48 mila tra imprenditori e lavoratori autonomi mettendo l’Italia al primo posto in Europa per numerosità di PMI e del 65,7% di occupati in imprese sotto i 50 dipendenti con uno stacco di 16 punti percentuali sopra la media europea). 

Da dove viene questo capitalismo pulviscolare? 

Parecchie sono le concause che spiegano in chiave storica, culturale e non solo economica, il proliferare del capitalismo dei piccoli. Si possono elencare a partire, paradossalmente, dalla crescita della grande impresa. Si perché è la grande impresa che, per abbassare i suoi costi di produzione e di coordinamento, si rivolge (anche temporaneamente) a fornitori di prodotti intermedi o di fasi del processo. Ma non è solo la presenza della grande impresa a spiegare il fenomeno. Dal Medio Evo in avanti, passando attraverso il monachesimo e la cultura rinascimentale, si sono distinte in Italia aree territoriali con addensamenti di piccole imprese specializzate in produzioni di retaggio artigianale. Da quelle concentrazioni dove le imprese si scambiano risorse materiali e fisiche abbassando le diseconomie esterne nascono i famosi distretti industriali. Per capire a fondo questo fenomeno, dice Sapelli, “per comprendere il presente industriale” occorre analizzare attentamente il “passato agrario” e le spinte migratorie della società italiana. Nelle aree in cui era diffuso il latifondo la piccola impresa non si sviluppa; essa prolifera nelle regioni come la Toscana, le Marche e l’Umbria caratterizzate dalla mezzadria. E’ proprio il mezzadro che, in virtù del patto colonico con il proprietario del fondo, dividendo con quest’ultimo i prodotti agricoli e gli utili, sviluppa una mentalità e una capacità imprenditoriale. In parallelo si assiste al ritorno nei paesi d’origine del nord (Veneto in particolare) degli emigranti che, forti di denaro e competenze acquisite in città estere più evolute, avviano iniziative imprenditoriali. Inoltre, con una certa regolarità, tra l’ottocento e il novecento, molti operai, spesso dopo il licenziamento da grandi imprese, intraprendono avventure imprenditoriali fondate sulle loro competenze tecniche, supportati in questo percorso da istituti di credito locale. “La piccola impresa raggiunge livelli incredibili di crescita dopo la Seconda Guerra Mondiale quando lentamente e silenziosamente si compie in Italia quella grande rivoluzione data dall’incremento del reddito. Questo aumento amplia i consumi e rende il consumatore più raffinato ed esigente al punto da non essere più soddisfatto dai soli prodotti della grande impresa”. 

Insomma il modello originale di sviluppo economico italiano non è improvvisato, ha una storia importante che affonda le sue radici nel passato agricolo del nostro Paese.

Ma il suo futuro?  La risposta del prof. Sapelli è netta: “Vedo un futuro immenso se verranno sfruttate in pieno le leve legate all’ICT, al digitale e a quella che è stata chiamata Manifattura 4.0. Mai come oggi i piccoli potranno fare profitto sfruttando l’improve tecnologico e la globalizzazione. La ridotta dimensione, se si riesce a cavalcare la rivoluzione tecnologica, cessa di essere un limite. Anzi può diventare un'opportunità. Il vero problema però è un altro. Per riuscire a compiere questa inversione, gli imprenditori devono continuare ad essere creativi e la creatività è una capacità non una competenza. Non la si impara come una qualsiasi metodologia nei corsi di formazione, né tantomeno dai consulenti di direzione. Dovrebbero mettersi a leggere Platone, confrontarsi con gente d’intelletto.”…..Sapelli prosegue. “Bisognerebbe tornare al capitale sociale e alla cultura comunitaria da cui tutto è partito. Piccolo non è bello. Piccolo è buono ma solo se ha il companatico, perciò la piccola impresa non deve stare da sola, ha bisogno di essere contornata da persone e istituzioni giuste. C’è bisogno di coesione sociale e di fare rete anche con le grandi imprese”. 

 

Insomma occorre ribadire che le PMI non sono un accidente occorso per caso alla nostra economia ma il portato di una storia millenaria. Non va trascurato. Esse hanno potenzialmente tra le mani un futuro importante. Per non farselo sfuggire devono saper valorizzare la potenza strategica e organizzativa della piccola dimensione come un fattore differenziante: “Non dobbiamo copiare le grandi imprese ma dobbiamo cavalcare la nostra diversità. Siamo piccoli. Non è un limite anzi un punto di forza e ci crediamo al punto tale da giocare questa originalità come un elemento del vantaggio competitivo!”

 

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