Giorni fa sui social è girata l’immagine di un convegno sul ruolo della PA nella ripartenza del Paese con un panel di circa una decina di persone: tutti uomini. Per qualche giorno nella bolla di chi segue sul web il dibattito attorno ai temi dell’inclusione nel settore pubblico ci si è interrogati su diverse questioni: la presenza di poche donne ai convegni sono la causa o l’effetto della scarsità di donne nei ruoli di responsabilità nella PA? Non vengono invitate perché sono ancora troppo poche coloro che rivestono ruoli apicali? O non fanno carriera perché sono ancora vittime di pregiudizi anche nella PA?
Non tutti sono ancora pienamente convinti che la questione di genere riguardi anche la pubblica amministrazione, tradizionalmente ad alta rappresentazione femminile: eppure, i dati mostrano una costellazione di enti pubblici popolati da donne, ma diretti da uomini.
I dati più recenti disponibili mostrano che negli enti locali (comuni, province e città metropolitane), a fronte di una sostanziale parità di genere tra i dipendenti (il 55% della forza lavoro è donna), persiste un divario crescente al crescere della responsabilità organizzativa: solo un dirigente su tre è donna e sono praticamente assenti le donne con ruolo di direttore generale. Inoltre, se nella distribuzione dei segretari comunali non emerge in prima battuta un gap di genere (il 52% dei segretari comunali è donna), nei primi dieci grandi comuni italiani solo due segretari comunali sono donne. Nei ministeri, seppur quasi sei dipendenti su dieci siano donne, allo scalare delle fasce dirigenziali la forbice aumenta: nella fascia più alta della dirigenza (I fascia) meno di due dirigenti su cinque sono donne. Nelle università, un dipendente su due è donna, ma il genere femminile è prevalente nei ruoli amministrativi (tre amministrativi su cinque sono donne) e solo residualmente nei profili accademici (è donna il 35% del totale dei professori associati e ordinari). Infine, troviamo una direttrice generale donna su tre in sanità, uno dei contesti con il più alto gender gap a sfavore degli uomini dal punto di vista complessivo, con quattro dipendenti donna su sei. Che cosa fanno le donne in sanità? Una su due è infermiera (47%), una su tre ha un profilo amministrativo (27%) e una su dieci è medico (12%).
I dati appena citati ci dicono che nella PA occorre monitorare non solo il gender gap sui diversi livelli di carriera, ma anche la distribuzione di genere all’interno delle diverse posizioni e ruoli che tradiscono una mancanza di parità sostanziale.
Ora, il tema è: quali misure adottare per rendere l’accesso ai ruoli di vertice più equo? Un pezzo della soluzione è offerto dalle politiche di inclusione, a partire dal potenziamento dell’offerta di servizi di cura (si pensi all’incremento dei posti negli asili nido), finalizzati ad alleggerire il peso del lavoro domestico, tipicamente a carico delle donne e tra le prime cause dell’abbandono del mondo del lavoro o della rinuncia a investire sulla propria carriera. Stringendo la lente al settore pubblico, con il recente dl n. 36/2022 (ribattezzato «Decreto PNRR 2») entrato in vigore dal 1° maggio e in corso di conversione in legge, il recupero del gender gap è entrato a pieno titolo anche nell’agenda di riforma della PA: all’art. 1 c. 5 il dl prevede l’introduzione di «misure che attribuiscano vantaggi specifici ovvero evitino o compensino svantaggi nelle carriere al genere meno rappresentato» e una proporzionalità rispetto allo scopo da perseguire dei «criteri di discriminazione positiva» nonché la loro adozione «a parità di qualifica da ricoprire e di punteggio conseguito nelle prove concorsuali». La norma, inoltre, prevede che il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Dipartimento delle Pari Opportunità, adotti entro il 30 settembre 2022 le linee guida contenenti indicazioni su come ridurre il gap.
Un secondo pezzo della soluzione è quello di definire strumenti di monitoraggio del fenomeno a livello sistemico, ma anche locale. Quanto è diffusa la consapevolezza del gender gap a livello di singolo ente? Quanto entra nelle conversazioni organizzative? Quanto invece il gap è percepito come fisiologico e forse anche incontrovertibile? Se da un lato l’inserimento nelle amministrazioni pubbliche del ruolo della Consigliera di fiducia – una figura imparziale con il compito di raccogliere segnalazioni riguardo atti di discriminazione, molestie sessuali e morali, vicende di mobbing – è uno strumento potenzialmente molto utile per garantire una forma qualificata e terza di tutela per le dipendenti, dall’altro è forse tempo di passare dalla gestione del caso singolo (pur fondamentale) a una più organica e sistemica.
A questo proposito, un’ulteriore proposta è offerta dal PIAO, il nuovo documento di coordinamento degli strumenti di pianificazione delle amministrazioni pubbliche: ricollegando il PAP (Piano delle Azioni Positive) alle politiche HR dell’ente è ora possibile qualificare le politiche di genere nella strategia di sviluppo dell’ente. Per garantire il raggiungimento nel medio-lungo periodo di un equilibrio complessivo di genere è di fondamentale importanza il monitoraggio del fenomeno nel tempo a livello di singola organizzazione, utile anche per valutare se le misure adottate anno dopo anno contribuiscono – oppure no e con quale ritmo – alla riduzione delle diseguaglianze. Un punto da cui ripartire sono gli strumenti già adottati, come quello del bilancio di genere, che possono contribuire a diffondere una più ampia consapevolezza del fenomeno.
Un’altra proposta riguarda la rimozione degli ostacoli «invisibili» nei meccanismi di accesso ai ruoli di vertice. Recentemente la Presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, prof.ssa Paola Severino, ha dichiarato che alcune delle prove pre-selettive adoperate nei passati concorsi della SNA tendevano a penalizzare le donne, statisticamente più avverse al rischio. Probabilmente occorre studiare meglio i dati, anche alla luce delle differenze di genere negli stili decisionali. Si tratta tuttavia di una buona pista da seguire per identificare gli ostacoli che definiamo invisibili, perché non siamo abituati a guardali.
Un altro rischio proviene dai nuovi percorsi di carriera, regolati a livello contrattuale per quanto riguarda gli scatti verticali e dalle nuove norme per quel che concerne l’accesso alla dirigenza. In tal senso, è importante non dare troppo peso all’esperienza già maturata in precedenti incarichi, sottostimando le reali capacità espresse, evitando in tal modo di perpetuare il pregiudizio che vede le donne restie a cercare l’accesso a specifici incarichi di responsabilità.
Infine, sperimentare modelli organizzativi più agili, basati anche su forme ibride di lavoro (come il lavoro agile) resta una modalità valida per aiutare le/i proprie/i dipendenti negli sforzi di conciliazione tra famiglia e carriera e, quindi, consentendo alle donne di non dover scegliere.
In conclusione, per quanto la PA sia largamente femminile, resta ampiamente diretta da uomini. Mettere le lavoratrici del pubblico impiego in condizione di scegliere di poter fare carriera come gli uomini dipende in parte dalle politiche di conciliazione (dagli asili nido al lavoro agile), ma anche dalla messa in campo di regole di selezione che non siano penalizzanti. Infine, procedere col monitoraggio – a livello sistemico e di singolo ente – del gender gap nei ruoli apicali aiuta a rendere tutti più consapevoli di un reale problema di equità.