Il Meglio del Piccolo

La calata dei francesi sul Made in Italy

Il gossip finanziario ha dato ieri risalto alla notizia dell’accordo firmato tra Diego e Andrea della Valle con il fondo L Catterton, controllato dal gigante del lusso Lvmh, per lasciare Piazza Affari. La vicinanza tra l’imprenditore marchigiano e il gruppo francese non è un fatto recente: Diego Della Valle è legato da oltre 20 anni a Bernard Arnault, fondatore, presidente e Ceo di Lvmh. Della Valle siede inoltre nel consiglio di amministrazione di Lvmh e già nell’aprile del 2021 il colosso francese deteneva  il 10% di Tod’s. Lo scenario, in caso di successo completo di questa operazione di acquisto, porterà i fratelli Della Valle a possedere il 54% del capitale sociale, L Catterton diventerà titolare indirettamente del 36% del capitale sociale mentre Lvmh resterà con il 10%.

 

Ovviamente l’annuncio non ha mancato di destare reazioni e critiche:

-  “Un'altra azienda italiana destinata a diventare "francese"; di questo passo in Italia ci saranno solo terzisti!” 

-“In Italia non si riesce proprio a costruire nessun agglomerato tra imprese della moda per poter competere nel selettivo e competitivo mercato del lusso!”

- "Made in Italy managed in France..."

- “Questi oligopoli globali impediscono la nascita di nuovi brand italiani perchè la loro potenza li uccide sul nascere!”.

Insomma l’operazione, già tentata peraltro due anni fa, suscita qualche livore.

Al di là dei commenti relativi a questo specifico annuncio (che non è il primo e non sarà l’ultimo) vi propongo una riflessione più “laica”.

  1. La crescita ovvero la brama di crescere in continuazione tipica di certe imprese in taluni settori, richiede investimenti clamorosi a cui la famiglia proprietaria spesso non può o non vuole direttamente provvedere. Arrivati ad un determinato livello servono i trilioni tanto cari a Paperon de’ Paperoni: così tanto rischio, in proprio, va riconosciuto, fa paura. La grande dimensione chiama inevitabilmente - arrivati ad una certa soglia - la finanza: che sia la Borsa o l’ingresso di un fondo nel capitale sociale o la partnership con un gruppo oligopolista. E’ una conseguenza naturale della tanto acclamata crescita. Ipocrita scandalizzarsi: è solo il rovescio della medaglia.
  2. La Borsa, ovvero il mercato azionario, non è l’unica alternativa per trovare risorse e non sempre, a torto o a ragione, viene giudicata la più conveniente. Nonostante la notevole evoluzione avuta negli anni recenti, quella italiana, ha ancora molta strada da percorrere per essere ritenuta l’opzione in assoluto più efficiente per accompagnare la crescita delle aziende. Bisogna continuare a fare educazione finanziaria partendo dal dato di fatto che l'Italia è ancora ricca di famiglie benestanti che preferiscono investire il loro danaro nelle proprie società o nei titoli di uno Stato come il nostro, la cui economia non pare, nel medio termine, a rischio di fallimento.
  3. Il “ciclo di vita” di un imprenditore e della sua famiglia - magari in assenza di successori dotati di quelle capacità necessarie per guidare una realtà estremamente complessa e grande o in presenza di eredi più propensi a gestire un patrimonio finanziario che a far manifattura - può rendere conveniente una vendita (inizialmente parziale) ad un gruppo operante nel medesimo settore o l’apertura ad un fondo di private equity. Questi attori possono garantire continuità offrendo sinergie e collegamenti importanti su vari fronti ivi incluso quello del reperimento di manager in grado di governare una dimensione che di “familiare” inizia ad avere ben poco. 
  4. La crescita chiama la finanza e quest’ultima porta quasi sempre con sé una gestione manageriale basata sui numeri e sulla standardizzazione dei processi. La finanza e la managerialità non sono patriottiche, non sono locali, sono globali per definizione, inutile prendersela coi francesi che compreranno Tod’s o con il fondo statunitense guidato da tale Mr Chu che probabilmente, dato il cognome, non è originario americano. Bisogna solo sperare che questo "melting pot", come successo in altri casi virtuosi (la vendita di Loro Piana per esempio), non porti nel tempo a sciagurate scelte di delocalizzazione e di allontanamento dal territorio originario (come si sta invece purtroppo palesando con un’altra dinastia pseudo imprenditoriale e con altri francesi in un settore meno trendy....). 
  5. Per fortuna queste storie - che pure fanno notizia nelle pagine economiche - non rappresentano in termini statistici l’economia italiana che resta fatta di piccole imprese che proprio per le loro ridotte dimensioni non sono granchè appetite dai grandi colossi e dal mondo del private equity. Si tratta, per fortuna, di realtà in maggioranza guidate da imprenditori che vogliono fare anzitutto prodotti di qualità, che ambiscono ad essere apprezzati e riconosciuti nelle loro nicchie in giro per il mondo, che mettono un’energia molto particolare nella loro opera, quell’energia che fa la differenza in tutto ciò che realizzano e nei loro comportamenti, compreso il rapporto con i loro collaboratori. Capitani d’impresa - non manager di professione – che hanno ancora voglia di spingere in prima persona, senza dover sottostare ai vincoli che i soci finanziari inevitabilmente introducono, per cui la crescita è solo una conseguenza e non il fine unico del loro agire. Persone che a vendere non ci pensano perchè ritengono di avere ancora molto da dare come fari decisionali e ne fanno motivo della loro esistenza. Preghiamo affinché nel nostro Paese ne nascano ancora tanti. 

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