Casi di management

FAAC: una governance celestiale

Il passaggio della proprietà dell’azienda bolognese alla curia vescovile ha imposto la necessità di ripensare assetti interni e obiettivi di fondo

Il passaggio generazionale, si sa, è un momento assai delicato nella storia delle aziende familiari. Quando l’imprenditore non ha eredi, la faccenda si complica ulteriormente. Ma se la proprietà viene trasferita non a una persona fisica, ma a un’istituzione millenaria che si pone obiettivi assai diversi dal perseguimento del profitto in senso capitalista, allora la sfida può sembrare improba.

 

Non si tratta di un esercizio puramente teorico: è la storia recente di FAAC (Fabbrica Automatismi Apertura Cancelli), piccola «multinazionale tascabile» bolognese fondata nel 1965 da un geniale imprenditore, Giuseppe Manini. Manini ebbe l’intuizione di mettere a fattor comune il «saper fare» diffuso nel distretto di Bologna a livello di competenze meccaniche, elettromeccaniche e idrauliche per realizzare un nuovo prodotto: un meccanismo ad acqua per aprire e chiudere i cancelli a distanza. Da allora l’azienda è cresciuta costantemente in Italia e quindi anche all’estero, allargando nel tempo il proprio business a produzioni contigue come i dissuasori antiparcheggio, i tornelli automatici e i meccanismi per le zone a traffico limitato.

I numeri del caso

 

Azienda: FAAC (Fabbrica Automatismo Apertura Cancelli)

Industry: sistemi automatici per porte e cancelli

Fatturato: € 427 milioni (2017)

Dipendenti: 2500 (2017)

Divisioni: 3 (Acess Automation; Access Control; Parking)

Quota di proprietà dell’arcidiocesi di Bologna: 100 per cento

Dividendi all’arcidiocesi: € 6,2 milioni (2017)

La morte improvvisa di Giuseppe Manini nel 1991 è un primo snodo chiave nella storia di FAAC. Con la scomparsa dell’imprenditore-fondatore, tanto brillante quanto accentratore, si pone per l’azienda la necessità di rivedere rapporto tra proprietà e management. Sembra averlo ben presente il nuovo presidente Michelangelo Manini, figlio di Giuseppe, che decide di assumere un ruolo di indirizzo strategico centrato su un’internazionalizzazione sempre più marcata; nel processo di decision making e nella gestione ordinaria cresce invece sempre più il peso di una squadra di manager competenti ed esperti, dotati di ampie deleghe. La «managerializzazione» di FAAC si accentua nei primi anni Duemila, al punto che la governance dell’azienda a fine decennio si avvicina più a quella di una public company che non a un’azienda familiare.


Il vero test alla solidità degli assetti interni è però dietro l’angolo: nel 2012 Michelangelo Manini muore senza eredi diretti; il testamento prevede che unico beneficiario del suo patrimonio, stimato in 1,7 miliardi di euro e che comprende la quota di maggioranza (66 per cento) di FAAC, sia l’arcidiocesi di Bologna. Alla decisione inaspettata segue un’aspra battaglia giudiziaria intentata dai parenti; in attesa di una sentenza, viene disposto il sequestro del patrimonio, con la nomina di un custode giudiziario, che entra ben presto in conflitto col management aziendale. La stessa Curia bolognese appare a tratti divisa sul fatto che sia opportuno o meno mantenere la proprietà di un’impresa multinazionale di stampo capitalista – anche se il cardinale Carlo Caffarra appare determinato a non tirarsi indietro, al punto da inserire un proprio rappresentante in CdA. Nel frattempo il team di manager al vertice di FAAC garantisce una continuità di gestione, con risultati sempre positivi a dispetto della mancanza di un indirizzo chiaro da parte della proprietà e di un contesto globale segnato dal post-crisi.


Ci vogliono due anni per arrivare a una soluzione: la Curia non solo riacquisisce il pieno controllo della quota azionaria di maggioranza ereditata da Manini, ma rilancia, rilevando il restante 34 per cento di azioni ancora di proprietà del gruppo francese Somfy. A questo punto, con il 100 per cento del capitale sociale in mano all’Arcidiocesi, viene rivista l’intera governance dell’azienda: si costituisce un trust a cui è attribuita la nuda proprietà, le azioni e i diritti di voto; l’Arcidiocesi per parte sua resta l’unico beneficiario e usufruttuario del trust, con un diritto di veto dell’arcivescovo su alcune decisioni chiave. Questa soluzione consente di separare in modo chiaro la proprietà dalla gestione, di preservare il legame tra azienda e territorio, e di conciliare le esigenze di investimento e profittabilità aziendali con i valori sociali della Chiesa.


Sotto quest’ultimo punto, in particolare, l’indirizzo è chiaro: i profitti devono essere massimizzati, secondo una logica capitalistica, ma andranno poi reindirizzati a investimenti all’interno dell’azienda (in acquisizioni, ma anche in ricerca e sviluppo, e prestando una particolare attenzione ai bisogni dei dipendenti), mentre i dividendi di spettanza della Curia vengono impiegati tramite la Caritas in progetti sociali che coinvolgono le famiglie, la scuola e il mondo del lavoro.


Secondo il nuovo arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, succeduto a Caffarra nell’ottobre 2015, la governance di FAAC deve seguire la strada segnata a suo tempo da Adriano Olivetti: lo sviluppo di un welfare aziendale forte, all’insegna di forme innovative di responsabilità sociale d’impresa – lasciando al timone un top management consapevole della necessità di navigare gli oceani della competizione globale. E i primi risultati, dal 2015 a oggi, sembrano dargli ragione.

Le implicazioni

  • Nelle aziende familiari, la mancata preparazione del passaggio generazionale può determinare situazioni di confusione e di incertezza al vertice con ricadute potenziali estremamente negative sulla vita aziendale; tuttavia, la presenza di un top management preparato e competente può garantire una gestione efficiente e profittevole anche in questi frangenti.

  • Nel percorso che porta dalla startup alla multinazionale, alla crescita dimensionale deve costantemente associarsi un ripensamento della struttura organizzativa e degli assetti di governance, con un’apertura crescente a competenze e punti di vista esterni alla proprietà e con l’inserimento delle competenze manageriali necessarie.

  • Una governance ben congegnata, con una chiara separazione tra proprietà e gestione, può aiutare a comporre almeno in parte il conflitto tra un’istituzione proprietaria non orientata al profitto (come la Chiesa) e la necessità di soggiacere alle regole della competizione capitalista in un contesto sempre più globale.

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