Venture capital: ecco perché è arrivata la volta buona

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TUTTI LO VOGLIONO MA FINORA HA STENTATO A DECOLLARE. ORA PERO' LE CONDIZIONI SONO CAMBIATE E SARANNO PROPRIO I GIOVANI STARTUPPER A BENEFICIARNE

di Stefano Caselli, SDA Professor di Intermediazione Finanziaria e Assicurazioni, Prorettore agli Affari Internazionali e professore ordinario presso il Dipartimento di finanza, Università L. Bocconi

Il venture capital inteso nelle sue diverse forme (seed, start-up e early stage financing) rappresenta senza dubbio la forma più estrema e rischiosa di investimento in equity in quanto si fonda sul finanziamento di progetti di ricerca finalizzati alla produzione di business idea che sfoceranno in attività di impresa vere e proprie oppure al sostegno di iniziative imprenditoriali che iniziano a muovere i primi passi, sostenute da una grande intuizione e dall’entusiasmo dei team che vi lavorano.

Sull’utilità dello strumento, e del venture capital più in generale, esiste da sempre un consenso pressoché generale da parte degli studiosi, delle forze politiche e degli imprenditori. I dati di mercato, con riferimento specifico all’Europa continentale, sebbene in crescita raffreddano immediatamente qualsiasi entusiasmo in quanto solo il 9% delle risorse destinate all’area del private equity è indirizzato verso l’area del venture capital. Più confortante è invece il quadro negli Usa, in cui la percentuale si colloca strutturalmente intorno al 25%. In altri termini, il tema del venture capital è stato spesso invocato ma concretamente, in Europa continentale e in Italia non è mai concretamente decollato ma piuttosto relegato a un’area ristretta, per addetti ai lavori e priva di qualsiasi collegamento con l’intero sistema economico.

Tuttavia, la sensazione diffusa è che non solo il dibattito ma soprattutto le iniziative riferite all’industria del venture capital siano diventate serie, concrete e capaci di incidere al di fuori del proprio ambito specifico. I fattori che spingono in questa direzione sono essenzialmente quattro: il ricambio generazionale degli startupper, che vede arrivare sulla scena giovani nativi digitali, per i quali la creazione di progetti e soluzioni diviene un elemento di natura ordinaria e non più eccezionale o trasgressivo; la mobilità internazionale degli studenti, che porta non solo ad allargare il network di riferimento dei potenziali startupper - essenziale per creare quelle alleanze e joint venture personali che contribuiscono a generare idee - ma anche a interagire con gli hub internazionali del venture capital attivi e attrattivi per i giovani; l’esigenza di nuovo sviluppo delle economie mature o in recessione, che spinge a vedere nella creazione di nuove imprese una opzione concreta e possibile, alimentata non solo dal desiderio di self-employment dei giovani ma anche dalle iniziative pubbliche e private che sostengono questa linea di intervento; la straordinaria disponibilità di capitali che, in un mondo a inflazione zero e a tassi di interesse prossimi alla zero, ha fame di nuove asset class su cui investire e in relazione alle quali diversificare i portafogli.

Se dunque questo momento storico si configura come la volta buona per la crescita del venture capital e del consolidamento del fenomeno degli startup come strumenti a servizio dello sviluppo economico, la scommessa vera diviene quella di stabilizzarne sempre di più tutto l’ecosistema di riferimento. Questo significa che l’intera filiera che si estende dalla fase di creazione embrionale dell’idea (o del sogno) imprenditoriale fino alle prime fasi di attività e di primo sviluppo deve essere completa e senza discontinuità.
Ciò deve spingere da un lato a non compiere scelte radicali o, ancor peggio, ideologiche come spesso avviene nel nostro Paese rispetto a cosa possa sostenere di più la creazione di nuove imprese (gli incubatori? I business angels? Le forme di intervento pubblico?), lasciando libertà e possibilità di sperimentare a favore di un progressivo allargamento delle soluzioni possibili, che troveranno poi un loro naturale successo o insuccesso di mercato. Più di qualsiasi altro settore, il venture capital vive infatti di esperimenti, di collaborazione e di scambio di idee, non certo di antagonismo e contrapposizioni. Ma soprattutto occorre lavorare nella direzione di incidere in maniera forte sui valori sottostanti all’intero ecosistema.

In questo senso, le università hanno un ruolo decisivo. Prima di tutto, sotto il profilo educativo e culturale, possono promuovere e valorizzare con autorevolezza la scelta imprenditoriale dei giovani come opzione concreta e possibile, sostenendo, in relazione alla matrice tecnica oppure economica dell’università stessa, l’idea della responsabilità dell’assunzione del rischio di creare un’impresa. Ma anche la spinta alla mobilità internazionale diviene una componente essenziale della maturazione del dna dei futuri imprenditori, che possono in questo modo allargare lo spettro delle collaborazioni possibili, utili a trovare risorse umane e finanziarie per sostenere il progetto di startup. Ma soprattutto, l’intervento diretto nella costruzione di infrastrutture dedicate, siano essi incubatori, fondi di venture capital, market place dedicati all’incontro fra domanda e offerta, diviene una forma concreta di intervento e anche di trasformazione sociale a servizio del paese. In questo senso, l’università si mette in gioco e rischia insieme alle ambizioni dei propri studenti.

Fonte: ViaSarfatti25

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