Milano, 28 Novembre 2019
Le comunità salveranno il mondo. Non le community virtuali, quasi sempre formate da individui senza veri legami sociali, ma proprio le comunità locali, fatte di persone in carne e ossa. Sono loro, secondo Raghuram Rajan, economista ed ex governatore della banca centrale indiana, il “terzo pilastro” su cui si regge – dovrebbe reggersi – l’equilibrio globale. Ma gli altri due pilastri – l’economia e lo Stato – “l’hanno trascurata”, come sostiene nel suo libro intitolato appunto The Third Pillar, presentato agli studenti del Full-time MBA in occasione di un incontro del ciclo “Populism and the Economy”. Una tendenza, sostiene Rajan, “non solo miope ma pericolosa”.
Il pericolo è rappresentato principalmente dalle nuove espressioni, più o meno organizzate, dello scontento che alligna e a volte esplode all’interno delle diverse comunità locali. Ma facciamo un passo indietro. Rajan descrive la storia del capitalismo – se non la storia tout court – come la costruzione e la tenuta di un edificio sostenuto dai tre pilastri. Un equilibrio dinamico nel quale il Mercato rappresenta per lo Stato “un contrappeso indipendente” e ne riceve “leggi e regolamenti”; lo Stato offre alla Comunità “sicurezza, giustizia e protezione sociale” in cambio della legittimazione democratica; e la Comunità scambia col Mercato “norme e valori” contro “beni e servizi”.
Tutto questo regge fino alla “tempesta perfetta”: la rivoluzione digitale, a cui si aggiunge la crisi economica del 2008. Ma è soprattutto la tecnologia che cambia definitivamente il paradigma. Sul versante economico, allargando i mercati e la supply chain a livello globale e sostituendo con l’automazione un’ampia fascia di lavoratori a reddito medio-basso; su quello politico, spostando i centri di potere dal livello nazionale a quello internazionale: “con mercati sempre più integrati, il potere politico migra verso l’alto”. La rottura del legame territoriale tra il potere politico ed economico e il tessuto sociale “ha indebolito le comunità locali” che sono state “colpite in modo differenziato al loro interno, esautorate, disarticolate”. Un humus favorevole alla nascita dei populismi: il bisogno di ridefinire un’identità sociale sempre più in crisi genera disagio e rabbia che si incanalano contro “l’altro”, sia esso l’elite corrotta o lo straniero. E in questo tentativo di ricostruire il senso di appartenenza i nazionalismi hanno gioco facile, sostituendo alla comunità locale quella nazionale, appunto.
Bisogna ripristinare il terzo pilastro della società, ma questo è il modo sbagliato, sostiene Rajan. Occorre invece ricostruire le comunità, definite come gruppi sociali che risiedono in un’area specifica e condividono un governo e un patrimonio storico-culturale. Ma l’economista vuole evitare i manicheismi: i mercati e lo Stato hanno avuto una funzione essenziale nel superamento delle economie feudali e spesso le comunità locali hanno costruito muri per difendersi dall’estraneo e dal “nuovo”, che sia rappresentato da esseri umani o da idee. Non si tratta quindi di abbattere i centri di potere economici e politici, come vorrebbe la vulgata populista, ma di equilibrare i tre pilastri per dare alla società le migliori possibilità di provvedere ai bisogni dei propri membri.
Secondo Rajan la soluzione ha un nome: localismo inclusivo. Dobbiamo “riportare ‘a casa’ il potere: dalla dimensione internazionale a quella locale” – afferma – attraverso una “sovranità responsabile”. L’innovazione tecnologica e i flussi globali di uomini e merci sono fenomeni inarrestabili che non ha senso contrastare con nuove forme di luddismo, nazionalismo o protezionismo. Ma se le macchine lavoreranno sempre di più al posto dell’uomo, il lavoro umano “si concentrerà sempre più sulle relazioni interpersonali”. Ripartendo proprio dalle comunità locali.
SDA Bocconi School of Management